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 2020  maggio 03 Domenica calendario

Passo a due con la mascherina

Nei giorni scorsi, mentre uomini e donne di teatro si interrogavano con crescente inquietudine sul loro incerto futuro ipotecato dal Covid-19, ha colpito molto un breve video “postato” dal Balletto del Teatro Nazionale di Praga, in cui due danzatori con mascherine nere eseguono con scioltezza un pas de deux nella penombra di un teatro vuoto. Il trailer annunciava la diretta tv di un gala al quale, in tempi “normali”, avrebbe assistito anche il pubblico in sala. Il messaggio sembra inequivocabile: abituiamoci a questo scenario se vogliamo andare avanti, la danza sopravvive al virus. «Ma si può danzare con le mascherine?», si sono chiesti molti addetti ai lavori. Ha senso immaginare questa modalità per ogni tipo di spettacolo? E per quale pubblico? 
Il coreografo Virgilio Sieni non ha dubbi: «La mia paura, per il futuro, è vedere proprio una coreografia con mascherine e tute bianche»; gli fa eco la regista Emma Dante, per la quale il teatro o è socialità o non è: «Io non ho paura del silenzio», dice, spiegando che, se non fosse per la sopravvivenza dei teatranti, un periodo di silenzio gioverebbe a tutti, ci aiuterebbe a riflettere sul senso profondo del teatro.
Già, la sopravvivenza: gli aiuti straordinari annunciati dal Governo appaiono ai più insufficienti, le associazioni di categoria cercano di fare fronte comune per lanciare l’allarme e per proporre soluzioni; ma il fronte, nel mondo dello spettacolo e in particolare della danza, non è mai stato comune, frammentato tra strutture pubbliche e compagnie private, tra (poche) “star” affermate e un esercito di organizzatori, coreografi e danzatori che arrancano per sopravvivere.
Le iniziative per immaginare il futuro si moltiplicano, non senza una buona dose di autocritica: «Vorrei che smettessimo di essere così compiaciuti di ciò che facciamo al punto da dimenticare che la nostra mancanza di identità, nei momenti difficili, è qualcosa da cui potremmo non riprenderci», afferma con lucidità e coraggio Danila Blasi, vicepresidente dell’Associazione italiana danza attività di produzione e membro dell’Ufficio di presidenza Federvivo/Agis.
Mentre numerosi danzatori, indipendenti o legati ai corpi di ballo, continuano a postare immagini dei loro solitari allenamenti casalinghi, qualcuno spinge per tesaurizzare questo tempo sospeso proponendo dibattiti e riflessioni sul futuro. Tra gli altri, le imprese culturali Theatron 2.0 e L’ultimo nastro di Krapp hanno lanciato il progetto WebinArt – Nuove strategie per lo spettacolo dal vivo, un ciclo di seminari digitali interattivi per proporre idee, condividere iniziative, fare squadra.
Lo scenario si divide tra chi pensa che il web possa offrire un’occasione per stimolare l’attività creativa, spingendo perché si trovino nuove forme di espressione e di fruizione, e chi aborre quest’idea sostenendo che per loro natura danza e teatro si fondano sul contatto e sulla presenza fisica dal vivo. Il web, per questi ultimi, può essere utile tutt’al più, come stanno dimostrando diversi teatri in questo momento, a rendere disponibili i video di spettacoli di repertorio, per proporre masterclass, lezioni, conferenze, dibattiti. 
Più che immaginare performance virtuali, Virgilio Sieni, ad esempio, si limita a proporre online le sue Lezioni sull’attesa e nel frattempo lancia il Manifesto politico e poetico dei cittadini, in cui si ribadisce la necessità di «diffondere pratiche volte alla cura, all’accoglienza, alla sensibilità e alla cooperazione, avvicinandosi sempre più ad ideali che definiscono l’arte come un indispensabile strumento di partecipazione sociale, territoriale e politica».
La Fondazione Aterballetto, viceversa, ha lanciato su Rai5 il progetto 1 meter CLOSER, videocreazione in quarantena ideata dal direttore Gigi Cristoforetti e realizzata dal coreografo Diego Tortelli e dalla videomaker Valeria Civardi con la partecipazione di un gruppo di quindici danzatori, quasi tutti confinati nelle proprie abitazioni a Reggio Emilia. «Il momento attuale ci chiede di formulare nuovi modelli – spiega Cristoforetti – di continuare a perseguire un’estetica esigente, ma di conformare la nostra creatività agli spazi nei quali possiamo danzare e ai canali di fruizione che abbiamo disponibili».
Pro o contro lo streaming, resta il fatto che per lo “spettacolo dal vivo” bisognerà attendere a lungo, nell’incertezza di poter programmare stagioni che potrebbero perdere pezzi per strada se l’emergenza avrà strascichi o se le regole di sicurezza imporranno condizioni di distanziamento sociale difficilmente applicabili nei teatri.
Sarà dunque inevitabile confrontarsi con i linguaggi digitali, ma a patto che si elabori un’estetica forte, coinvolgendo videomaker professionisti, rispolverando la felice stagione della videodanza, che negli anni ’80 ha spopolato tra festival, pubblicazioni e dibattiti. Chi vorrà invece attendere il momento di poter tornare allo spettacolo “in presenza” dovrà forse mettere in discussione la “forma teatro” alla quale ci hanno abituato le nostre sale all’italiana. Se il pubblico non potrà affollarle, se anche gli artisti dovranno mantenere tra di loro una certa distanza, bisognerà pensare a spazi e forme alternative, magari facendo tesoro proprio di quelle avanguardie che cinquant’anni fa avevano portato la danza e la performance per le strade, sui tetti e lungo i prospetti dei palazzi. Forse è giunto il momento di ricondurre tutto a un grado zero della rappresentazione, a una sorta di rituale necessario e magico, come sembra volerci dire Eugenio Barba nella sua commovente lettera aperta all’amico Gregorio Amicuzi del Residui Teatro di Madrid: «Ho una sola certezza: il futuro del teatro non è la tecnologia, ma l’incontro di due individui feriti, solitari, ribelli».
Forse non avremo il “tutto esaurito”, ma si danzerà malgrado tutto, consentendo agli artisti e alla società di continuare a elaborare i lutti, le contraddizioni e le attese dei nostri giorni.