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 2020  maggio 03 Domenica calendario

Dalle trincee del 1918 arriva la voce dei dialetti

Tra le operazioni coperte da segreto di Stato svoltesi durante la prima guerra mondiale, e riemerse grazie agli scavi in archivio favoriti dal centenario, ce n’è una che non riguarda qualche potentissima arma o un raffinato sistema di difesa, bensì un poderoso e in sé irenico programma scientifico: la costruzione di una memoria duratura dei popoli partecipanti al conflitto attraverso la registrazione fonografica delle loro lingue. Delle loro voci.
Nel 1915, a un anno dallo scoppio del conflitto, l’Impero tedesco e quello austriaco costituirono in parallelo due commissioni operanti presso i Phonogrammarchive o Lautarchive di Vienna e di Berlino, incaricate di registrare scientificamente, classificare e archiviare le testimonianze orali relative a lingue e dialetti dei detenuti nei campi di prigionia austro-tedeschi.
La storia di questa grandiosa campagna scientifica, rimasta dapprima segreta, poi a lungo semisconosciuta, si svolge negli stessi luoghi in cui si sviluppano iniziative individuali come quelle del filologo viennese Leo Spitzer, che da ufficiale addetto alla censura studiò la lingua delle lettere dei deportati e pubblicò le sue ricerche in opere divenute presto celebri. Ma Spitzer stesso, come del resto l’opinione pubblica del tempo, ignorava che i governi dei due imperi stavano finanziando in quegli stessi campi di prigionia un programma di ricerca insieme linguistico, etnografico e tecnologico di primo rango: le due commissioni, dotate di mezzi tecnici allora all’avanguardia per la registrazione dei suoni, furono incaricate di applicare su prigionieri di guerra i protocolli da poco stabiliti dalle grandi scuole linguistiche tedesche, austriache e svizzere per la raccolta sul campo di materiali dialettali. Si trattava di testi orali e canti popolari, soprattutto: materiali in cui la linguistica ottocentesca si era riproposta di cercare l’impronta digitale della psicologia dei popoli, considerata la chiave d’accesso alla varietà e insieme all’unità delle culture umane: un ambito di conoscenze di cui l’età positivista vagheggiava una classificazione enciclopedica e insieme rigorosamente scientifica, con aspirazioni all’universalismo.
Di fatto, uomini e mezzi messi a disposizione per il programma erano i migliori allora disponibili in Europa: nelle due commissioni furono nominati i più illustri cattedratici di linguistica delle università austriache e tedesche, che all’epoca ospitavano i fondatori stessi della linguistica storico-comparativa e alcuni tra i massimi rappresentanti della corrente ad essa alternativa, la geolinguistica. A loro furono assegnati i mezzi necessari per istruire collaboratori e allievi, nonché tecnici del suono da inviare nei campi di prigionia. Gli internati venivano richiesti usualmente di tradurre nelle loro parlate gli stessi testi di riferimento (un modello scelto di norma per gli informatori di area romanza, e italiana in particolare, è la parabola evangelica del Figliol prodigo, tradizionale banco di prova per comparazioni dialettologiche), o di registrare altro materiale etnograficamente utile, come filastrocche o canti popolari. 
Le registrazioni raccolte, corredate da testi e appunti scritti, nonché dalla fitta corrispondenza intercorsa fra i raccoglitori e i loro coordinatori accademici, sono state in buona parte conservate nei depositi degli archivi fonografici berlinese e viennese, anche se la sconfitta degli Imperi nel grande conflitto ha fatto cadere l’oblio su questi materiali. Con un secolo di ritardo, essi sono stati pubblicati, disseppellendoli dagli archivi berlinesi e viennesi in cui giacevano dimenticati e mal classificati: l’Accademia delle Scienze di Vienna, in particolare, si sta occupando del riversamento su CD dell’intero archivio, le cui registrazioni più antiche datano al 1899.
Di recente pubblicazione è il disco relativo ai prigionieri di guerra italiani, per il quale le registrazioni fonografiche sono accompagnate dal frutto di un pregevole lavoro d’équipe coordinato dalla storica della lingua e dialettologa Serenella Baggio, dell’Università di Trento. L’attenzione degli studiosi italiani si è rivolta in particolare alle indagini svolte da Karl Ettmayer, cioè alle dodici registrazioni di dialetti italiani raccolte nell’aprile del 1918, cioè dopo Caporetto, nei campi austriaci di Mauthausen e di Machtrenk. Si tratta delle voci di un soldato lombardo, di un ligure, di due toscani, di un pugliese, di un calabrese, di tre siciliani e di tre sardi. Una dozzina di dialettologi italiani coordinati dalla Baggio hanno virtualmente “adottato” i dodici prigionieri, tornando sul lavoro di Ettmayer, aggiornandone i risultati e restituendo alla comunità scientifica quelle che in alcuni casi sono le prime registrazioni utili di vari dialetti italiani: quindici tracce audio spesso gracchianti e confuse, ma di grande suggestione. I meritevolissimi colleghi italiani non me n’avranno, spero, se anziché i loro nomi ricordo qui quelli di alcuni dei prigionieri che la loro opera ha strappato all’oblio: persone come il ventottenne Salvatore Fucilla, tipografo di San Marco Argentano (Cosenza), o il ventiduenne minatore sardo Salvatore Azzini (Atzeni), di Arbus, o ancora il ventisettenne Rodolfo Cerabino, postino di Spinazzola, in Puglia. Uomini i cui nomi nessuno avrebbe forse pensato di trovare incisi non su una lapide in memoria dei caduti, ma – insieme alle loro vive voci – su un disco fonografico sepolto in un archivio prussiano.