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 2020  maggio 03 Domenica calendario

Scavare nella vita di Giacomo Boni

Peccato che l’inglese larger than life si renda male in italiano, starebbe a pennello a Giacomo Boni (1859-1925): archeologo, restauratore, pubblicista, divulgatore scientifico, funzionario ministeriale, inventore di tute mimetiche per gli Alpini, apostolo di crociate contro l’alcolismo. Ma lui forse apprezzerebbe: sapeva l’inglese, cosa allora non tanto comune in Italia, e fra i suoi amici si contavano John Ruskin, William Morris e Philip Webb, figura-chiave del movimento Arts and Crafts. Boni fu tra i protagonisti delle discussioni di frontiera sul metodo archeologico e sui criteri del restauro, e la sua personalità poliedrica meritava lo sguardo d’insieme che ci propone un agile, informatissimo libro di Myriam Pilutti Namer: non una biografia narrata per ordine, ma piuttosto un vigoroso ritratto interpretativo. Non manca in queste pagine un profilo di Eva Tea (1886-1971), dimenticata storica dell’arte che pubblicò nel 1932 una corposa biografia (se non agiografia), Giacomo Boni nella vita del suo tempo, ricca di dati ma povera nell’indicare le fonti. Da leggersi, scrive Pilutti, «come un romanzo biografico, sottoponendo a verifica, caso per caso, le informazioni che tramanda». Eva Tea insegnò storia dell’arte a Brera (dove ebbe fra gli allievi don Milani) e alla Cattolica. Anche se si convertì al cattolicesimo solo nel 1917, a presentarla a Boni nel 1915 pare sia stato Achille Ratti, allora Prefetto della Biblioteca Vaticana e più tardi papa Pio XI. Quale che fosse la natura del loro legame, da quell’anno alla morte di Boni la Tea ne condivise passioni e battaglie, e dopo averne scritto la biografia ne raccontò il lavoro al Foro e al Palatino in una serie di articoli degli anni Cinquanta.
Lo scrupoloso ricorso alle fonti (spesso inedite) è la forza del libro di Myriam Pilutti, che offre anzi preziosi strumenti per proseguire la ricerca su Boni: la sua Bibliografia, una Nota sulle fonti e la succosa ricognizione dell’epistolario. Ma chi era davvero Giacomo Boni, una figura pubblica, uno studioso, o forse solo un «veggente in solitudine», come lo definì nel 1913 il giornalista Primo Levi (“l’Italico”)? Come stanno insieme il suo impegno sociale e l’adesione al fascismo dei suoi anni estremi? Attraversando con piglio sicuro gli aspetti di una personalità multiforme, l’autrice ne evidenzia le linee di forza e i punti irrisolti, a cominciare dalla singolare polarità fra dedizione al metodo scientifico (ch’egli chiamava archeonomia, con parola di suo conio che entra nel titolo di questo libro) e una mai rinnegata inclinazione visionaria.
Come convivessero questi due estremi lo mostrano le importanti e controverse scoperte su Roma arcaica avvenute fra 1899 e 1904, gli stessi anni in cui Boni, in un articolo giustamente famoso della «Nuova Antologia» (1901), teorizzò lo scavo stratigrafico. Ad esso si conformano le sue impeccabili relazioni di scavo, mentre il salto dalla raccolta dei dati all’interpretazione restava affidato a un incerto metodo combinatorio. Certo Eva Tea non gli rese un gran servizio scrivendo che «egli aveva scavato il sepolcreto nel suo cervello, prima di cercarlo nel Foro»: rischiava così di ridurre lo scavo alla verifica di ipotesi preconcette, e lo scavatore a un rabdomante (com’egli fu definito sulla «Rivoluzione Liberale» di Gobetti). Ma lo stesso Boni amava presentarsi in tal veste, ad esempio confessando a Ruskin di aver avuto in sogno la premonizione della scoperta del Lapis Niger nel Foro.
Fu Roma a innescare la sua fervida immaginazione archeologica, ma a instradarlo verso l’osservazione scientifica era stata la sua Venezia, ancora austriaca quand’egli vi nacque (1859). A Venezia prese forma la sua filotecnia (altra parola che amava): analisi delle tecniche edilizie, primato del disegno interpretativo nel registrare architetture e scavi, frequente ricorso alla fotografia e anzi uso precoce dell’aereofotografia archeologica dall’alto di un pallone, un insaziabile appetito per le innovazioni tecnologiche. In una giovinezza difficile (anche per le umili origini), era stato operaio edile e disegnatore di cantiere, assistendo a confusi restauri e a un fitto commercio di marmi antichi che lo indignavano non meno di Ruskin. E in una Venezia ormai italiana fece nel 1885 la celebre analisi archeologica delle fondazioni del Campanile di San Marco, di cui dopo il crollo (1902) poté esaminare i materiali di sgombero.
Roma era capitale d’Italia da meno di vent’anni nel 1888 quando Boni vi approdò, e vi era diffuso il sogno di lanciare la sonnolenta città dei Papi verso il «destino cosmopolita» che secondo Mommsen le spettava. Fu qui che Boni volle trasfigurare la filotecnia elaborata a Venezia in archeonomia, una nuova disciplina che usando scienza e tecnica (a cominciare dalla stratigrafia) costruisse dal suolo di Roma una nuova misura del mondo. La sua archeonomia (dal greco nomos, legge) doveva individuare le leggi universali della stirpe umana, e farlo attraverso il «cieco rispetto sereno dell’incompreso», cioè dei dati di scavo, penetrandone il senso col ricorso alle fonti letterarie e con l’intuito (oggi si direbbe “empatia”) dell’archeologo. Ma la sua formazione classica era quanto meno irregolare, e a Roma dominava un’attardata antiquaria (solo nel 1899, con la chiamata in Sapienza dell’austriaco Emanuel Löwy, vi subentrò un’archeologia non provinciale). Perciò un metodo divinatorio come quello di Boni poteva apparire legittimo; anche perché i suoi “risultati” si prestavano ad essere sveltamente comparati con altre civiltà, su una strada che con ben altra profondità ma sempre al margine dell’antichistica mainstream era praticata a Bonn da Hermann Usener (1834-1905), maestro di Aby Warburg. 
L’ampiezza d’orizzonte così conquistata da Boni venne accolta da molti con fastidio, ma fu una sorta di contrappeso al difetto di una rigorosa “scienza dell’antichità”, che gli italiani impararono poi dai tedeschi. E se non aveva il tempo di pubblicare minutamente quel che minutamente andava scavando o di cercare più solide radici nella filologia, fu perché aveva fretta di adoprare le sue nozioni e le sue visioni per dare agli italiani maggior coscienza di sé. Di qui l’intensa attività pubblicistica, ma anche l’ideazione di spettacolari tableaux vivants che incarnassero scene e oggetti della Roma arcaica, come la capanna di Romolo. Perciò dopo la marcia su Roma gli fu chiesto di ricostruire con fedeltà archeologica il fascio littorio: la sua romanità estetizzante prendeva così un colore infausto, anche se (lo scrive Croce) «come altri estetizzanti italiani, egli era privo di serio sentimento politico ed ignaro dei doveri e degli sforzi che questo comporta; e accettava e avvolgeva delle stesse speranze ed elogi tutti gli uomini del potere, tutti i governi che si succedevano, pei quali tutti escogitava qualche riferimento romano, trovava qualche immagine di bellezza». L’ingenuo e un po’ attardato spirito risorgimentale con cui egli aveva cercato nella storia antica un’arma di riscatto per il popolo trovò infine la sponda di governo che cercava, ma ne venne fuorviato.
Già vent’anni prima di quella ricerca archeologica sul fascio, Boni aveva inscenato (1902) una ricostruzione dei Palilia, antichissima festa pastorale romana. Guardando quelle foto col senno del poi, è facile sorriderne. Ma solo se dimentichiamo con quanta fatica e incertezza si provasse in quel tempo, una volta “fatta l’Italia”, a “fare gli italiani”. Con questo in mente, Boni aveva scritto sulla «Nuova Antologia» nel 1920: «conviene interpretare i bisogni delle masse e provvedere a ritrovi educativi e ricreatori», anche perché, «relegato nel suo macchinoso opificio, il lavoratore si abbrutisce e si riduce pari ad un ingranaggio di macchina».