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 2020  maggio 03 Domenica calendario

A 140 anni dalla morte di Flaubert

Tra poco la Francia celebrerà l’anniversario della morte di Gustave Flaubert, avvenuta l’8 Maggio 1880. Qui abbiamo a suo tempo rievocato il processo cui fu sottoposto quello che molti considerano il più grande romanziere francese dell’800. Ora lo onoriamo ricordandone, nei limiti del possibile, le opere principali. Cominciando, naturalmente, da quella che quasi lo identifica: Madame Bovary.
Il romanzo apparve a puntate, nella Revue de Paris, nell’ultimo trimestre del l856. La sua pubblicazione integrale sarebbe arrivata poco dopo. La trama era tratta da una storia vera, quella di Delphine Couturier, suicidatasi a 27 anni dopo aver consumato lo spirito nella noia, il fisico negli adulteri e il patrimonio nei debiti. Come lei, Emma Bovary è la moglie di un medico di campagna, ottuso e mediocre, che si accontenta di un caldo letto e di un piatto di bollito. La giovane, nutritasi di letture eroiche e sentimentali, sogna amori impossibili. Quando, dopo un ballo sontuoso, scopre il bel mondo, la fantasia galoppa verso avventure più ardite, che la modesta provinciale asseconda con dei deludenti surrogati. Emma civetta con un corteggiatore, si concede a un altro, tenta la fuga, viene abbandonata, ritrova il primo amoroso, spende e si indebita, cade nella depressione e alla fine si suicida con l’arsenico. Il marito trova le lettere del tradimento, ma si rassegna «perché questo era il destino».
IL TERMINE
Flaubert fece come Shakespeare con Holinshed: trasformò una cronaca prosaica in un capolavoro di lingua e di psicologia. Lavorò di stile, ricomponendo le frasi decine di volte, e alzandosi di notte, come Petrarca, per correggere una dissonanza. Ma soprattutto rappresentò un aspetto dell’animo umano che ne avrebbe assunto addirittura il nome: il bovarismo, che nella sua formulazione più semplice, data da Jules de Gaultier, consiste nel «concepirsi diversamente da quello che si è». In quanto tale, esso non riguarda solo la moglie frustrata di un borghese di provincia che sogna evasioni passionali, corteggiamenti notturni e giuramenti lacrimosi. Esso riguarda quel generale bisogno di evasione dalla ripetitività del quotidiano verso orizzonti più ampi, nella macerante attesa di un qualcosa che non arriva mai.
Il romanzo suscitò le ire della censura. Flaubert fu processato e assolto con una paternale del giudice, e risalì di fama ma non di morale. Era sempre burbero e scontento, e trovava nel lavoro l’unico sollievo a un disagio esistenziale che nemmeno la frequentazione dei salotti parigini riusciva a mitigare. Nel 1869, dopo sette anni di correzioni e ritocchi, pubblicò L’educazione sentimentale, una variazione meno tragica, ma ancor più amara, del romanzo precedente. Il protagonista, Frederich Moreau è un giovane studente con la stessa natura onirica della Bovary, l’aspirazione a un amore eterno e a un adeguato avanzamento sociale. Sul battello di Nogent incontra Marie Arnoux, e ne trae un tale innamoramento che «il desiderio del possesso fisico spariva sotto uno struggimento più profondo, in una curiosità illimitata e dolorosa». Ma lei è sposata e lo ignora. Poiché in amore – a differenza di quanto accade in economia – è l’indisponibilità che aumenta il bisogno, Federico idealizza Marie fino all’ossessione, e ne cercherà per tutta la vita una sostituta. Intanto arriva a Parigi, si laurea di malavoglia, entra nel demi monde, eredita una fortuna rapidamente sciupata, tenta invano la carriera politica, instaura relazioni simultanee con una lorettee una contessa, gli nasce e gli muore un bambino, e alla fine lascia l’una e altra, sempre pensando al primo amore perduto.
Passano gli anni, e un giorno Marie gli si presenta, giusto per confidargli che anche lei lo aveva sempre desiderato. Le pagine di queste confidenze delicate e nostalgiche sono l’unica concessione che Flaubert fa al romanticismo, e sono tra le più belle della letteratura. Ma Federico ormai è un maturo borghese quasi indigente, lei è ingrassata con i capelli bianchi, e la cosa finisce lì. Per rimediare a questo eccesso di lirismo, Flaubert termina il romanzo con un capitolo posticcio, dove Federico rievoca con un amico la vicenda di un fallimento giovanile in un bordello infame. L’Autore vuole dirci e lo scriverà nella sua corrispondenza che lo spazio sognante dei pensieri vaghi e dei desideri inconsistenti è incompatibile con la vita reale. Solo l’arte può costituire, se non una via di fuga, almeno un analgesico.

LE TENTAZIONI DI SANT’ANTONIO
Nel 1874 Flaubert pubblicò le Tentazioni di Sant Antonio, sulle quali meditava da trent’anni. È un’opera singolare, che, ripetutamente depurata delle stramberie fantasiose delle prime stesure, mantiene l’eleganza di una prosa distillata con maniacale e paziente abilità. L’apparizione della regina di Saba, che evoca al Santo tutte le immagini dell’erotismo più raffinato e perverso, è così letteraria da perdere ogni malizia accattivante, cosicché anche il lettore, come Antonio, realizza subito che si tratta di una lussuria ingannevole. Il quasi contemporaneo dipinto di Félicien Rops, sullo stesso soggetto, rende assai meglio la malizia del tentatore e i turbamenti del povero anacoreta. L’ultima opera, Bouvard et Pécuchet, è un ennesimo ritorno al motivo dominante: il fallimento di due amici in tutte le iniziative delle loro vite sciupate. Flaubert morì lasciandola incompiuta. Ma temiamo che la conclusione avrebbe accentuato, se possibile, l’animo amaro del suo Autore, perché Flaubert fu tormentato dal pessimismo, e da una sfiducia nella natura umana che sconfinava nel disprezzo. Ma questa visione riduttiva costituisce anche il limite dei suoi romanzi.
Noi ammiriamo ogni volta di più Madame Bovary, come rileggiamo volentieri i Promessi Sposi, perché rappresentano la perfezione linguistica dell’Ottocento e al contempo dipingono alcuni personaggi con una genialità che li rende universali. Ma così come nel Manzoni l’affidamento costante a una Provvidenza benevola risulta insoddisfacente e persino stucchevole, così l’esasperato sarcasmo di Flaubert rischia di innervosirci nella sua unilateralità. La vita (almeno quella di questo mondo) non sarà certo retta da una Divinità che ne garantisca felicità e giustizia, ma non è nemmeno una giostra di sconfitte come è rappresentata in questi mediocri personaggi della provincia francese. Una mente razionale può rifiutare le vuote illusioni consolatorie, ma non può inaridirsi nella sterile osservazione delle nostre insufficienze. Perché questo fu il dramma di Flaubert: gli mancarono le due doti che, secondo Anatole France, ci consentono di sopravvivere: l’ ironia, che sorridendo alla vita la rende amabile, e la pietà, che piangendo sulle sue disgrazie la rende sacra.