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 2020  maggio 03 Domenica calendario

Biografia di Francesco Facchinetti raccontata da lui stesso

I parametri sono importanti, e Francesco Facchinetti ne ha uno totemico: “Nella mia testa esiste Mick Jagger e poco sotto io”. Il tono con il quale lo spiega, quasi leggero, potrebbe risultare fuorviante, anzi è appositamente fuorviante, serve a spiazzare l’interlocutore, fargli abbassare le armi, portare la discussione sul suo terreno congeniale, in apparenza colloquiale. E vincere. Perché lui non partecipa: quando parla, spiega e gioca con i ricordi, non perde mai di vista la sfida. Tutto è sfida. E così la sua narrazione è come un Risiko, dove utilizza le armi a disposizione, quello che ha imparato e visto già da piccolissimo (“e seguivo mio padre nei concerti”); le fughe e i ritorni, gli incontri con i big, i lori vizi, i vezzi e le follie; ha assorbito e sintetizzato senza filtri, e filtri non ne vuole, tanto da portare la domenica su Dplay Plus, la piattaforma streaming pay di Discovery, The Facchinettis: dieci puntate (per ora cinque, le altre devono essere girate) dove c’è esattamente lui, la sua famiglia e la sua agenzia di management (una delle più forti nel settore spettacolo). A nudo.
Ieri ha compiuto 40 anni.
Ho sempre vissuto una vita particolare e festeggiare i quaranta chiuso in casa è in qualche modo la nemesi.
Quando ha percepito la particolarità della sua vita?
C’è un ricordo nitido: tour dei Pooh del 1983, il pomeriggio mi addormento nel letto dei miei; a un certo punto mi svegliano “andiamo al concerto”: insonnolito li seguo, ma ancora non avevo ben compreso il tipo di lavoro di papà. Arrivo al palazzetto e un giornalista mi inizia a intervistare.
Con quale domanda?
La classica per un bambino: “Che vuoi fare da grande?”. E io: “O il contadino o il Papa”; questa risposta l’ho analizzata per anni: il contadino perché provengo da una famiglia che da generazioni lavora la terra, e dalla terra nasce tutto, quindi per me il contadino deteneva il potere importante.
Il Papa…
Per me una rockstar, era la persona che rendeva tutti felici, e volevo essere così; comunque da quell’intervista qualcosa è cambiato, è uno di quegli scalini che ognuno di noi affronta sulla rampa della consapevolezza, e ho iniziato a pensare alla mia esistenza come ricca di energia, di poesia, di favole.
A tre anni non la impressionava la massa di persone davanti a suo padre?
Uno si abitua al mondo in cui cresce: a una settimana dalla nascita, ho iniziato a viaggiare in tour. Per me il pubblico, le prove sul palco, la musica alta, la condivisione tra i vari Pooh, l’energia umana generata dai live erano la normalità.
Sua moglie spiega: “Non riesce a stare mai fermo”.
Sono iperattivo.
Lei in classe?
Mi hanno espulso dalla Montessori, non ne potevano più, e la goccia finale è stata una fuga da scuola, me disperso per quattro ore e recuperato in un negozio di giocattoli a due chilometri di distanza; (ride) anche mia figlia è fuggita dalla materna; (pausa) prima della Montessori mi avevano buttato fuori da altri asili, con mio padre costretto a un concerto riparatore.
Addirittura.
Un’esibizione per le Suore Sacramentine: con loro sono stato appena due mesi e mi chiamavano “Attila”.
Si è dichiarato dislessico.
E pure disgrafico e qualcosa l’avevano capita già ai tempi dell’asilo, ma non totalmente, parliamo sempre dei primi anni Ottanta; (cambia tono) tutto ciò, associato all’iperattivismo, mi portava a ragionare più veloce dei vocaboli che avevo a disposizione o che potevo pronunciare in maniera comprensibile…
Quindi?
La bocca non stava dietro alla testa e arrivare a un 6 in pagella equivaleva a un 10 di chiunque altro, così ero incattivito con il mondo, mi sentivo incompreso e menavo.
Ora, in casa?
Ho la fortuna di vivere dentro un bosco, e i miei figli sono dei Mowgli: quando li porto a Milano quasi si spaventano per il caos e il numero di auto; se passa un tir si fermano stupiti; (adotta un tono serio) e poi lavoro: è dal 1994 che vivo l’era digitale, e questa fase l’ho utilizzata per mettere a punto alcune strategie,
Quanti dipendenti ha?
Parecchi: nell’azienda principale una quindicina a tempo indeterminato, più una sessantina di freelance, e ognuno dei talenti che seguiamo si porta dietro una decina di persone.
Tra un artista talentuoso e uno affidabile, chi sceglie?
L’artista non è affidabile, ma se per affidabile intendiamo “professionale” allora oggi è fondamentale, perché tutto è più articolato di un tempo.
Quali consigli dà ai suoi talenti?
Ho tre linee fondamentali: motivazione, regola d’ingaggio e storytelling; quindi: perché lo fai?; come instaurare un rapporto empatico con il mondo e qual è la storia che ti precede e quella che ti crei.
Queste tre regole le aveva chiare quando è diventato Dj Francesco?
All’epoca no, ma non sono mai stato un artista, piuttosto un uomo che ama comunicare; chi aveva in testa il percorso giusto era Claudio (Cecchetto): lui mi ha folgorato con delle scelte che io catalogavo come folli, ed erano giuste.
Tipo?
È stato lui nel 2003 a dirmi: “Devi chiamarti dj Francesco perché sarà l’epoca dei ‘dj’ e se sarai bravo, ogni volta che pronunceranno il termine ‘dj’ tutti lo assoceranno a te”.
Perfetto.
La canzone del capitano è uscita a febbraio e lui già l’aveva incasellata come il successo dell’estate.
Lei ci credeva?
Solo con il delirio di onnipotenza di un ragazzo di vent’anni, ma non credevo diventasse il brano più venduto del ventunesimo secolo.
Quante copie?
Quasi due milioni.
Come ha impiegato i primi soldi guadagnati?
Ho costruito una comune alle porte di Bologna; (pausa) da ragazzo mia madre mi ha cresciuto proprio a Bologna e in un contesto hippie, dove non c’era energia né acqua calda, però mi divertiva lo scambio culturale con persone diametralmente opposte e provenienti da ogni dove.
Alla fine?
Ho provato a restituire quello che avevo ottenuto, ma a un certo punto l’ho chiusa perché eravamo troppi; tanti membri della comune sono diventati dei big in ambienti professionali diversi: il mondo digitale italiano è gestito dalle cinque persone che vivevano con noi.
Da lì si è emancipato dal ruolo di “figlio di Roby Facchinetti”?
Ho sempre desiderato essere suo figlio, per me è una figata; oggi, nonostante l’azienda di management più forte d’Italia e la conquista di 77 dischi di platino, ciò che amo di più è tenere l’acqua sotto il palco di chi canta.
Traduciamo.
Grazie a mio padre e, ora, insieme ai talenti che seguo, posso andare in posti fantastici; (cambia marcia alle parole) per essere chiari: quando ero piccolo e papà cantava a San Siro, ero orgoglioso di chiamarmi Facchinetti.
Sempre?
L’unica volta in cui ho celato il cognome è quando ero un quindicenne punk e andavo al laboratorio anarchico per distribuire i dischi: non avrebbero apprezzato; e poi la mia croce e la mia salvezza è essere nato con un egocentrismo infinito, talmente infinito da non reputare una diminutio presentarmi come figlio di Facchinetti.
Perfetto.
Nella mia testa esiste Mick Jagger e poco sotto io; però questa impostazione mi ha consentito di infilarmi in situazioni folli, insieme a gente straordinaria.
Un esempio.
Una serata a Los Angeles a casa di Quincy Jones, invitato per il suo compleanno: mi presento con il mio fare cazzone e inizio a tempestarlo con le domande più cretine, tipo “raccontami di Frank Sinatra”; poi inizia a raccontare, e all’improvviso ci spiega: “Sì, ho scritto tante canzoni di successo, ma la mia preferita è Man in the mirror”, cantata da Michael Jackson.
E…
In quel momento ho toccato con mano cosa vuol dire creare un qualcosa con la consapevolezza di poter rivoluzionare il proprio ambiente e non solo; gli artisti statunitensi hanno una libertà mentale che li porta a ribaltare ogni percezione precedente.
Il suo quotidiano prima di diventare dj Francesco.
Ero un bravissimo “pr” della notte milanese: parlavo molto, ero accogliente e soprattutto servizievole, e all’epoca lavoravo per l’Hollywood; prendevo le modelle e le portavo in discoteca.
Ci provava?
Dovevo mantenere l’equa distanza, altrimenti sarebbe stata la fine; all’epoca a Milano arrivavano tutte le star del mondo, ho visto e conosciuto chiunque, compresi dei miei miti come Billy Corgan (leader degli Smashing Pumpkins).
Cosa intende per “servizievole”?
Ero il loro schiavo, pronto a soddisfare ogni capriccio.
Anche qui: esempio.
Una volta seguivo uno sportivo celebre a livello mondiale: un giorno, a mezzogiorno e mezzo, scende dall’auto a piazzale Loreto, tira fuori il pisello e si mette a pisciare, con la gente che si avvicinava per un autografo, poi capiva e scappava.
Era drogato?
Diciamo in un altro mondo.
Oltre all’incontinente?
A fine Novanta incontro a Milano Jim Carrey, si trova bene con me e mi invita a seguirlo in giro per l’Europa per la promozione di un film; e allora mi ritrovo dentro il suo mondo folle e ho capito un punto: quando pensi così tanto a te stesso, alla fine ti estranei dalla società e regredisci come persona.
Nello specifico.
Personaggi di quel livello hanno un team pronto a sopperire a tutto, a togliere ogni piccola o grande incombenza, dal pagare la benzina allo scegliere le scarpe da indossare: è lì che si regredisce; (sorride) se un personaggio vuole andare al negozio di Prada, e alle quattro del mattino, è inutile rispondergli che è chiuso.
Sempre e solo “sì”.
Jim Carrey aveva le sue fisime legate al cibo prima di un’intervista: pretendeva frutta selezionata a seconda dei colori, e se mancava qualche cromia era un disastro. Io lo spiegavo ai suoi, anche perché certi atteggiamenti già li conoscevo.
Dall’Hollywood?
No, da mio padre: prima dello show vuole due biscotti, due fette di bresaola, un pezzo di ananas e la mela tagliata a tre quarti.
Qual è la sua regola d’ingaggio?
È raccontare una storia che ho vissuto e non letto, e per questo studio sempre.
Legge romanzi?
Saranno due o tre anni che non mi capita, preferisco libri folli come La società a costo marginale zero di Jeremy Rifkin (e inizia a spiegarlo, analizzarlo, commentarlo e alla fine a porre domande trappola quasi da professore sadico, dove la risposta è quasi sempre sbagliata).
Lei a 10 anni.
Espulso dagli esami di quinta elementare.
Pure a 10 anni?
Il tema era: “Qual è la cosa più bella del mondo?”. Per me era Karl-Heinz Rummenigge, e dopo venti minuti avevo finito e dopo poco ho cominciato a rompere le palle a chiunque. Cacciato..
Vent’anni.
Tre giorni di festival punk in Germania insieme al mio migliore amico, Daniele Battaglia (figlio di Dodi). Qualcosa di mistico.
Trent’anni.
Mi sono sempre sentito il signore della festa, e allora ne ho organizzata una clamorosa, tamarra, e l’ho imballata di tutti personaggi più o meno famosi; poi in realtà nella testa già desideravo diventare padre.
Il gossip lo ha più subìto o gestito?
Mi è sempre piaciuto, mai sofferto, e poi ci sono nato.
Un vizio.
Sono molto, molto, molto metodico. Voglio mangiare sempre nello stesso ristorante, percorrere sempre la stessa strada, desidero avere sempre gli stessi vestiti; ma niente fumo né l’alcol.
Scaramanzia.
Non ai livelli di mio padre che se vede il color verde o viola impazzisce, ma ci metto il mio.
Lei per lavoro ha visto Berlusconi.
È la persona con la mente più veloce mai incontrata: mi ha ricevuto, fatto accomodare a un tavolo, e accanto a me ha piazzato due persone, due competitor, anche loro convinti di essere al centro della riunione; quando i due hanno capito che in realtà il protagonista ero io, hanno giocato a denigrarmi. Era un test di Berlusconi.
Diletta Leotta più bella o più brava?
Tutte e due, e può diventare una top player, ma deve capire un dato: essere meno brava di quello che lei cerca di risultare.
Invecchiando si assomiglia ai genitori. Lei?
Sono sempre più nel mio viaggio come papà è da sempre nel suo.
(E come canta dj Francesco: Porta in alto la mano, segui il tuo capitano; muovi a tempo il bacino, sono il Capitano Uncino).