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 2020  maggio 03 Domenica calendario

L’Africa in rivolta per la pandemia

Confinato nella sua baracca per via del lockdown, Jacques Barry, venditore ambulante di ananas, manghi e banane, non ha più nulla da mettere sotto i denti. Ha finito anche le ultime scorte di riso e fagioli, quelle accumulate per le settimane di grandi piogge. Nelle sue stesse condizioni si trova il suo vicino, Paul Diop, che non riesce più a sfamare la famiglia perché da quando il governo della Guinea Conacry ha vietato i trasporti pubblici, con il suo taxi sgangherato non guadagna più un solo centesimo di franco. I due hanno perciò deciso di unirsi alle centinaia di manifestanti che da giorni protestano contro le misure per combattere la pandemia di coronavirus nel piccolo Paese dell’Africa occidentale che, pochi anni fa, fu uno dei più funestati dalle febbri emorragiche di ebola.
La rivolta spontanea e disorganizzata nella capitale Conacry è quotidianamente repressa nel sangue dalle forze di sicurezza, le quali riescono a evitare il peggio – l’assalto alla banca centrale o al palazzo presidenziale – soltanto sparando ad altezza d’uomo. Ma a cominciare dal presidente Alpha Condé, che a 82 anni entro dicembre cercherà di farsi rieleggere per un terzo mandato, i vertici del potere sono molto preoccupati perché ogni giorno il numero dei manifestanti non fa che aumentare.
Lo stesso accade in Nigeria, Burkina Faso, Uganda, Mali e Kenya, tutti Paesi dove almeno il 35 per cento della popolazione vive nelle bidonville, dov’è quindi impossibile rispettare il distanziamento sociale e dove spesso non c’è neanche acqua a sufficienza per lavarsi le mani. Come aveva previsto il sociologo svizzero Jean Ziegler in un’intervista a Repubblica, le conseguenze economiche e sociali nel continente africano saranno ben peggiori di quelle sanitarie.Le stime della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale sono raccapriccianti, perché sette lavoratori su dieci hanno impieghi precari, il che si tradurrà presto con altri 50 milioni di poveri. Ad aggravare la loro condizione saranno l’impatto devastante della pandemia sugli apparati sanitari, la drastica riduzione dei finanziamenti provenienti dall’estero e le enormi perdite per gli esportatori di prodotti agricoli.
Lunedì scorso, in Nigeria sono scese in piazza decine di operai delle raffinerie dell’uomo più ricco d’Africa, Aliko Damgote, chiedendo di poter ricominciare a lavorare. Prima di essere arrestate, hanno devastato due commissariati e ferito numerosi agenti a Lagos, megalopoli di 23 milioni di abitanti, tutti costretti a restare in casa dal 30 marzo scorso. Per prevenire episodi analoghi, il presidente Muhammadu Buhari ha annunciato un primo alleggerimento del lockdown a partire da domani. Ma nel Paese più popoloso d’Africa ha imposto coprifuoco notturno e obbligo di mascherine.
E questa settimana a Ouagadougou, poverissima capitale del Burkina Faso, centinaia di commercianti hanno manifestato la loro rabbia per la chiusura dei mercati lanciando sassi contro la polizia. «Chiediamo l’immediata riapertura dei quaranta mercati chiusi dal 25 marzo», dice Bibata Keita, portavoce della rivolta. «Se ciò non avverrà, esploderà la collera di tutto il Paese e distruggerà l’intera classe politica che sta sfruttando la pandemia. Noi poveri siamo risparmiati dal coronavirus. È una malattia che colpisce i ricchi».
Ora, le parole di Bibata Keita riflettono il timore degli esperti sulle future rivolte contro le élite, in gran parte responsabili del disastro in cui versano le strutture sanitarie in gran parte dell’Africa. A molti capi di Stato, sostiene Ziegler, poco importa «se gli ospedali delle nazioni che amministrano somigliano a immondi lazzaretti, perché loro possono curarsi all’estero, nelle cliniche svizzere, francesi, italiane o inglesi».
Accadeva, per esempio, con il tiranno dello Zimbabwe, Robert Mugabe, il quale, per anni, mentre il Paese stava attraversando una terribile crisi economica, trascorreva lunghi periodi in una carissima clinica di Singapore. Ma è accaduto recentemente anche in Nigeria, settimo produttore di petrolio al mondo e primo in Africa con 2,7 milioni di barili al giorno, ma dove solo il 4 per cento del budget è destinato ai servizi sanitari. Il mese scorso, uno stretto collaboratore del presidente Buhari, ai primi sintomi di coronavirus è volato a Londra, dove però la polizia di frontiera non l’ha fatto sbarcare. Rientrato in Nigeria, ha giustificato la tentata fuga con un tentativo di non pesare sul sistema sanitario. Ma il Covid-19 non ha avuto pietà. L’ha ucciso ugualmente.