Robinson, 1 maggio 2020
Un saggio sulla pigrizia
Un libro sulla pigrizia che esce proprio adesso, mentre il Coronavirus ci costringe tutti ad un ozio forzato, è un bell’esempio di tempestività. Soprattutto se si pensa che il volume è stato scritto prima che la clausura domiciliare ci condannasse a poltrire malgré- nous. Significa se non altro che l’autore, nella fattispecie il semiologo Gianfranco Marrone, ha intravisto nella filigrana del presente che il tema era incombente. Se poi il volume sostiene che per riuscire ad essere pigri bisogna affaticarsi, logorarsi, dissiparsi, la sua attualità viene ulteriormente accresciuta dal mood prevalente nelle reazioni al lockdown. Che sfatano il mito del Paese amante del dolce far niente. Perché la maggior parte delle persone, di fronte a questo abisso di tempo libero che si è spalancato sotto i nostri piedi è rimasta attonita, paralizzata, catatonica. E qualcuno, aggiunge Marrone in un brevissimo post-it inserito al momento di andare in stampa, è arrivato a sostenere, «con spirito calvinista di dubbio gusto, che è meglio morire piuttosto che non lavorare». I grandi teorici della pigrizia inorridirebbero di fronte a questa mistica dell’operosità. Paul Lafargue, Roland Barthes e soprattutto Oblòmov, il personaggio nato dalla penna dello scrittore russo Ivan Aleksandrovi? Gon?arov e diventato il paradigma del nullafacentismo, nonché padre di tutti gli sdraiati. Ma anche Bartleby, lo scrivano renitente di Herman Melville e, last but not least, Paperino e Snoopy.
In realtà, sostiene Marrone, esser pigri non è una questione di carattere ma è un sentimento collettivo, un modello di opposizione che si manifesta appieno in quei contesti dove la laboriosità è considerata un valore in sé, una virtù sociale e morale e l’inattività un vizio, o addirittura un peccato. Insomma, il pigro non è mai solo con sé stesso. Ma è tale in quanto contrappone la sua neghittosità ad un sistema di valori «che fa dell’attivismo un valore supremo, spesso fine a sé stesso». In questo senso, l’esercizio della pigrizia non consiste semplicemente nel lavorare il meno possibile. E meno che meno nell’avere più tempo libero. Perché in effetti l’idea stessa del tempo libero è l’altra faccia del tempo del lavoro. I due concetti appartengono l’uno all’altro, come il dritto e il rovescio di un ricamo che condividono la stessa trama. Ed è proprio questa trama ad essere revocata in questione da pensatori come Paul Lafargue, genero di Karl Marx, che fa della pigrizia la prima delle conquiste dei lavoratori, mille e mille volte più nobile e sacra di quelli che definisce «i tisici diritti dell’uomo». Tanto che nel 1887 scavalca a sinistra l’autore del Manifesto del partito comunista con il suo corrosivo libello Le droit à la paresse ( Il diritto all’ozio), come dire il Manifesto del partito fancazzista. Ma forse, più di loro due messi insieme, ha potuto Donald Duck, meglio noto come Paperino, che non si è limitato alla teoria. Perché lui non ci fa ma ci è. È l’incarnazione dell’homo piger, senza se e senza ma. Aborre nei fatti l’iperattivismo altruistico alla Topolino, il suo individualismo inerziale diventa critica sociale senza parole. Antiprogressista e fannullone, lotta per conquistare il diritto al riposo come utopia. Siamo a distanza siderale da suo cugino Gastone, nullafacente solo perché schifosamente fortunato. O dal Ciccio di Nonna Papera, goloso epicureo, buonista in pace col mondo. Mentre l’irascibile zio di Qui, Quo e Qua è un pasdaran della poltroneria, un attivista dell’inazione, un agit prop dell’accidia. Non contemplativo ma lavativo. E, come scrive Marrone, mostra che per essere pigri bisogna lavorare moltissimo, «scontrarsi con un mondo che pretende sempre di più un attivismo ipocritamente euforico». Il papero è capace di opporre una spossante resistenza- resilienza alle continue profferte di lavoro che gli vengono dal plutocrate zio Paperone. O di resistere alle lusinghe del turboconsumismo, quando fatica un sacco per recuperare la sua vecchia amaca senza farsi tentare dai sofisticati modelli superfluamente superaccessoriati di ultima generazione. In fondo il mitico personaggio disneyano mette d’accordo lo stravaccato Oblòmov e i teorici del tempo libero, perché riesce a trasformare la siesta in un lavoro e scrive addirittura un Manuale di pisolinologia, scienza di cui è il maestro assoluto.
Insomma, Paperino fa consapevolmente quel che noi facciamo forzosamente al tempo dello smartworking, costretti dal doppio salto mortale del neocapitalismo. Che rende sempre più impalpabile la differenza tra lavoro, svago e tempo libero. Perché li accosta fino a fonderli e confonderli. Producendo un cortocircuito esistenziale che rimette in discussione i soggetti e i concetti che dalle rivoluzioni borghesi fino a ieri hanno stabilito confini e valori del fare e del non fare.
Il risultato è che nella società liquida, dove niente è per sempre e dove l’inattività, scelta o forzata, diventa un fattore produttivo, un interruttore che introduce nei flussi lavorativi una discontinuità funzionale, uno stand by programmato, anche la pigrizia è diventata interinale.