la Repubblica, 30 aprile 2020
L’anno senza la foto di classe
I Dpcm (decreti della presidenza del Consiglio dei ministri) non ne parlano e tra le ferite subite dall’anno scolastico 2019/2020, non è certo la più grave. Però in questa primavera anomala il coronavirus si è portato via anche un rito non privo di valore, un dinosauro sfuggito all’estinzione dei suoi simili in virtù della propria eccezionalità. È la foto di classe, la prima e durevole rappresentazione ufficiale di gruppo, una performance in favore del destino e con gli occhi pieni di un tempo che sembra aspettare davanti, senza fretta.
Già negli ultimi anni, causa inasprimento delle leggi sulla privacy, quell’appuntamento segnato (e dimenticato) sul diario, ospite alieno delle consuetudini scolastiche, era stato messo in discussione da qualche dirigente ultraortodosso (pur di avere un ricordo, nel 2018 le prime elementari di una scuola di Grado si accontentarono di uno scatto di schiena). La fine di un’annata già priva di cerimonie d’addio, gavettoni e pizzate, perde così un’altra funzione collettiva che si ripeteva, spesso sotto i platani o i tigli di un cortile, da centosessant’anni – il primo a specializzarsi nella vendita di ritratti agli allievi fu l’americano George Kendall Warren: gli studenti si scambiavano poi le foto tra loro per raccoglierle in volumi dalle coste dorate, un proto Facebook.
Se la foto di classe è sopravvissuta fino ai giorni in cui qualsiasi soggetto può contare su migliaia di ritratti e in ogni posa già prima d’iniziare la scuola e nonostante sia agli antipodi della cultura visiva imposta da smartphone e social media, deve esserci un motivo. Nessuno è preparato per lo scatto, non ci sono filtri e ritocchi per migliorarsi, manca il tempo per essere narcisi. Questo essere “in ritardo” sul presente si smaschera nel momento in cui i bambini e i ragazzi di oggi non si riconoscono nella foto di classe. Non dieci anni dopo: passati giorni, quando la stampa è pronta. In quell’istantanea non controllabile, forse l’unica oggettiva rimasta, sono diversi da come sono abituati a riconoscersi. È un’immagine che produce soggezione o straniamento. Per le generazioni precedenti, la sorpresa di rivedersi non riguarda tanto l’aspetto: è il contorno, è l’aula, sono i vestiti a sembrare sbagliati.
Si cerca di restare immobili; da quando non è più di moda tenerle conserte, non si sa che cosa fare delle braccia, sole e allergia feriscono gli occhi, un compagno decide all’ultimo in che fila inserirsi e fa perdere l’equilibrio: entra in scena il fotografo, tutti fermi! È un altro animale pressoché estinto e che rinasce nelle scuole a primavera. La sua è una professione strana: è un radiografo del futuro che non saprà mai in cosa si sono evoluti i suoi pazienti, salvo che diventino celebri. Scattando, ci congela insieme. Il valore della foto di classe non è nei singoli volti o corpi ma nelle relazioni tra loro. È una sottrazione d’individualità a favore di un soggetto comune a venti, trenta persone e che riassume anni d’intenzioni, sguardi, sentimenti; è visibile anche il mondo di provenienza, le storie. Il singolo è definito dall’insieme: da solo appare fuori luogo e comica è la sua difficoltà a mettersi in posa per diventare simile all’idea di sé; sembra che ognuno stia cercando un’espressione valida senza trovarla. Questa foto tipica dell’epoca del non distanziamento sociale conserva passato e futuro. Realizzata poco prima della fine, tira le somme. È un’altra pagella. Quando saranno passati anni, basterà fissarsi sullo sguardo di un compagno per riconoscere, a una particolare frequenza dello spettro visibile che compare in rare occasioni – quello di memoria e intuito insieme – un destino che lì era già in gran parte presente. La foto di classe rilascia il proprio contenuto soltanto nel tempo, quando non sarà più possibile avvisare l’altro o altra di quanto per noi fosse già evidente allora, quando però eravamo schierati come atleti al via e distratti a contare, quale fosse la strada davanti. Mancava il tempo per dire che cosa avessimo scoperto dell’altro. Resta il piacere di confrontare, a distanza, gli esiti con le supposizioni, rivivendo così altre ore insieme a distanza.
C’è ancora un elemento della foto di classe. Maestri, professoresse. I sentimenti rispetto alla loro presenza in mezzo a noi, cambiano nel tempo, spesso migliorando. Dal fastidio alla commozione: potrebbero essere già morti, chissà. La riconoscenza a posteriori nei riguardi di una figura da cui si è appreso ciò che, sorprendendoci, ha dato i suoi frutti, può essere tenera e spiazzante. In una foto di classe del Liceo Condorcet anno 1888-1889, il diciottenne Marcel Proust è mezzo storto, i suoi occhi sono grandi e meravigliati, tiene il corpo piegato a sinistra dove, una fila sotto di lui, c’è l’uomo che l’autore della Recherche definì il suo «eroe nella vita reale», il professore di filosofia Alphonse Darlu, girato verso il suo allievo più brillante.
Nelle maglie fitte della rete d’immagini che ci contiene più volte, resterà il buco del 2020. Tra qualche anno verrà a mancare qualcosa, e nessun trucco digitale potrà sostituire l’esperienza e gli effetti di quest’unica rappresentazione di cui siamo attori mai preparati a sufficienza.