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 2020  aprile 29 Mercoledì calendario

Ecco il caso dov’è bene lavarsene le mani

Lavarsi spesso le mani. È la prima e la più importante tra le raccomandazioni indicate per prevenire il contagio in questi giorni di pandemia. Misurare la temperatura. È una procedura utile per capire se si è infettati, anche in assenza di altri sintomi. Stare in quarantena. È la norma da seguire se vi è un modesto rialzo febbrile (segno di un possibile contagio) o se si hanno avuti contatti con una persona malata di Covid–19 o asintomatica ma con tampone positivo al coronavirus. Tre pratiche sanitarie non nuove, ma fondamentali ancora oggi per salvaguardare la nostra e l’altrui salute. Lavarsi le mani è un atto apparentemente banale, ma in realtà una procedura igienica fondamentale non solo per l’attuale pandemia, ma per evitare in generale il rischio infettivo, perché le mani sono un ricettacolo di germi, batteri e virus, molti in grado di scatenare gravi infezioni.
Un gesto semplice che ha cambiato però il cammino della medicina. A intuirlo a metà Ottocento un medico ungherese, Ignaz Semmelweis (1818–1865), che scoprì l’origine della febbre puerperale, frequente causa di morte per le donne dopo il parto. Nell’ospedale di Vienna dove egli lavorava vi erano due reparti: uno gestito dai medici, l’altro dalle ostetriche. Nel primo vi era una mortalità assai alta (oltre il 10 per cento), mentre nell’altro i decessi erano molto meno (solo l’1 per cento). La causa di questa differenza era dovuta ai differenti approcci usati per visitare e far partorire le donne. Medici e studenti andavano in sala parto e in corsia immediatamente dopo aver eseguito autopsie sulle donne decedute senza nessuna particolare procedura di pulizia delle mani, cosa che non accadeva alle ostetriche che non eseguivano dissezioni cadaveriche. Ecco la ragione per cui il loro padiglione presentava una più bassa mortalità.
Per verificare l’esattezza di questa ipotesi nell’estate del 1847 Semmelweis impose a colleghi e studenti di medicina di lavarsi le mani con acqua e cloruro di calcio prima di entrare in sala parto o eseguire visite sulle donne incinte. In pochi giorni il crollo di mortalità per sepsi puerperale nel reparto gestito dai medici fu impressionante, allineandosi a quello minimo dell’altro reparto. Paradossalmente la “rivoluzione” del medico ungherese, nonostante l’evidenza dei risultati, non venne accettata dai colleghi e anzi fu addirittura osteggiata. Solo molti decenni più tardi, dopo gli studi di Louis Pasteur (1822–1895) sulla contaminazione batterica e di Robert Koch (1843–1910) sul ruolo dei germi come causa di infezione, la pratica del lavaggio del- la mani prima di ogni procedura medica invasiva ideata da Semmelweis iniziò a diventare abituale in ambito sanitario. A tal proposito appare singolare (ma è importante tenerlo presente in questi giorni) che una recente indagine inglese ha evidenziato come l’oggetto più ricco di germi in assoluto con cui noi entriamo abitualmente in contatto è il manico dei carrelli del supermercato. Sono i principali ricettacoli di batteri e virus, più ancora dei corrimano di bus e metrò. Laviamoci sempre accuratamente le mani dopo la spesa quindi. Altri oggetti comuni poco igienici (quindi da pulire spesso) sono il mouse e la tastiera del computer e il telefonino. Misurare la temperatura corporea con il termometro è l’unica modalità obiettiva che consente di cogliere un rialzo febbrile possibile primo segno di un’infezione. Tutti hanno visto qualche settimana fa le immagini di chi, sbarcato in aeroporto, era velocemente sottoposto a un monitoraggio termico con i termoscanner, l’evoluzione moderna dell’abituale termometro. Oggi, in tempo di coronavirus, lo screening termico (bisogna stare sotto il 37,4) serve anche come lasciapassare per andare a fare la spesa o entrare in farmacia.
Nessuno strumento come il termometro ha avuto una così ampia diffusione e una tanto estesa applicazione in ambito medico. Un prototipo (in realtà un semplice termoscopio, uno strumento ad aria che rilevava la temperatura dell’ambiente) venne ideato nel 1592 da Galileo Galilei, mentre fu il medico padovano Santorio Santorio a costruire nel 1625 il primo vero termometro clinico fornito di una scala numerica per la misura della temperatura corporea, poiché già sin dall’antichità la presenza di febbre era ritenuta espressione di malattia. Altro passaggio fondamentale avvenne nel 1654 a Firenze, quando si introdusse l’uso dell’alcol in luogo dell’aria all’interno del tubo di vetro avvolto a spirale che costituiva lo strumento. Questo strano “termometro” (il termine, dal greco therme – calore – e metron – misura –, venne coniato dal gesuita francese Jean Leurechon nel 1624) è ancora oggi visibile al Museo delle scienze della città toscana. Nel 1714 il fisico tedesco Daniel Fahrenheit sostituì l’alcol con il mercurio e pochi anni dopo il medico Carl Wunderlich rese più pratico lo strumento accorciandolo (30 centimetri). Misura che venne poi ulteriormente dimezzata nel 1866 da Thomas Allbutt, considerato il vero inventore del moderno classico termometro portatile, utilizzato sino al 2009, anno in cui venne messo al bando l’uso del mercurio considerato tossico.
Da allora i termoscanner, strumenti in grado di rilevare in pochi secondi la temperatura corporea grazie a una sonda a infrarossi, dominano la scena, consentendo il rilievo termico a livello del condotto uditivo o, senza neppure il contatto fisico, posizionando lo strumento a pochi centimetri dalla fronte.
Infine se si è asintomatici ma positivi al tampone, se si hanno sintomi modesti (poca febbre, raffreddore) e se si viene dimessi dall’ospedale una volta guariti bisogna stare in quarantena. Passare cioè un periodo in isolamento per evitare di contagiare altre persone e diffondere la malattia. La quarantena è una “invenzione” dei veneziani, che nel 1377 decisero di isolare le navi e le loro ciurme prima di permetterne lo sbarco nel porto di Ragusa per fermare la diffusione della peste nera. La decisione di attendere un lungo periodo (inizialmente 30 giorni poi portati a 40 – da qui il nome di quarantena –) prima di consentire l’ingresso in città degli stranieri venne presa dal Gran Consiglio della città su indicazione del medico responsabile della salute pubblica (la “commissione tecnica” di allora), nella convinzione che se tutte le persone isolate non si fossero ammalate al termine della quarantena si potevano considerare sane e quindi non contagiose. Un’idea antica, ma ancora valida oggi, che è alla base di questa così attuale pratica.