La Stampa, 29 aprile 2020
Intervista a Damiano Michieletto
Per molti Damiano Michieletto è un genio, per altri un eversore. Di certo, è il regista d’opera italiano più famoso (o famigerato) del mondo, e sicuramente il più scritturato. Lui, però, attualmente si identifica in un calabrone. S’intitola infatti Il volo del calabrone il suo programma tivù che debutta domani alle 19,20 su Rai5. Sei puntate, un’opera a puntata, realizzate non in studio ma online, collegandosi sui social con altri personaggi della cultura o dello spettacolo.
Sarà il solito programma sull’opera lirica che guarda solo chi già all’opera ci va.
«No. L’opera sarà il punto di partenza, non di arrivo. Un trampolino per volare in ogni direzione, verso la letteratura, il cinema, il teatro, l’arte, l’attualità. Anche Il volo del calabrone è il brano di un’opera lirica, La favola dello Zar Saltan di Rimskij-Korsakov, e l’opera una miniera in cui scavare per leggere il presente. Non è un programma per appassionati ma per appassionare».
Domani si inizia con Falstaff di Verdi. Cast: Giuseppe Battiston, Ambrogio Maestri, Serena Sinigaglia e Vinicio Capossela. Che ci azzeccano (specie Capossela)?
«Battiston ha recitato in teatro il Falstaff di Shakespeare e un monologo su Orson Welles, che fu e resta "il" Falstaff del cinema. Maestri è oggi il Falstaff di Verdi più celebrato. Sinigaglia ha messo in scena sia Shakespeare sia Verdi. E Capossela di Falstaff canta la poetica, le periferie e le osterie di chi è ai margini, di chi ha molto vissuto e rimpianto ma sogna ancora. Come sir John, appunto».
Un programma tivù senza telecamere, coronavirus oblige.
«Avevo iniziato a fare delle dirette Instagram sul sito della Fenice, e lì mi sono allenato e appassionato. All’inizio ero un po’ paralizzato, poi è diventato normale. Fateci caso: adesso non chiamiamo più la gente al telefono, la videochiamiamo. L’eccezione è diventata la regola. Quello che sembrava invadente, penetrare nell’intimità degli altri, adesso è un’abitudine. E aver fatto l’occhio a immagini "sporche", a riprese amatoriali come quelle di Instagram o di FaceTime cambierà anche la nostra percezione estetica».
La pandemia cambierà anche il modo di fare teatro?
«Farà cadere molte barriere fra web, tivù, cinema e teatro. La sfida di far diventare teatralmente utilizzabile Internet è aperta alla creatività. Qualcuno nei giorni scorsi ha dichiarato al Guardian che l’importante è individuare quale medium sia più adatto per comunicare ciò che vogliamo esprimere. Si tratta di Peter Brook, dall’alto dei suoi 90 anni e del suo teatro crudo e povero, senza barriere fra attore e spettatore».
Lo streaming è una minaccia o un’opportunità?
«Lo streaming non potrà mai sostituire la performance dal vivo. Ma ti permette di ampliare il tuo pubblico. A teatro di uno spettacolo fai cinque recite. Però se dai la possibilità a chi non c’era di guardarsele a un prezzo ridotto, moltiplichi il pubblico. Molti nel nostro ambiente vivono questa clausura con toni apocalittici. È sbagliato. Sarà una fase lunga, magari lunghissima, ma dopo torneremo a fare teatro e spero ci sia un’esplosione di creatività».
Intanto Conte parla di tutto, messe e musei, estetisti e spiagge, partite di calcio e ristoranti, ma il teatro risulta non pervenuto. Colpa sua o del mondo del teatro?
«Di entrambi. Dare la colpa alla politica è giusto, ma è anche facile. Noi però siamo tutti dei cani sciolti. Non c’è mai condivisione. Ho contattato due o tre colleghi importanti perché volevo uscire sui giornali con un gesto forte, tipo dieci domande a Conte o a Franceschini. La risposta è stata: sì, no, boh, vediamo... Sulle riviste del settore ho però firmato un appello a Conte insieme ad altri 29 registi o musicisti perché faccia ripartire lo spettacolo dal vivo».
Intanto lei quante produzioni ci ha già rimesso?
«Per ora, Salome alla Scala, il Rosenkavalier a Bruxelles e le riprese della Damnation de Faust a Torino, di Cav&Pag a Londra, di Rigoletto alla Fenice e di Luisa Miller a Roma. Ma temo salteranno anche La vedova allegra a Caracalla, i Contes d’Hoffmann a Londra e il dittico Erwartung e Intolleranza 1960 alla Scala».
Un macello. Per consolarsi che fa?
«Faccio tivù, appunto. E, sempre a casa, a Treviso, sto con i miei figli, cucino, stresso il mio scenografo Paolo Fantin che abita due piani sopra di me, scrivo canzoni e per finire suono la chitarra. Quando sono in giro per il mondo non posso mai portarmela dietro».