La Stampa, 29 aprile 2020
Le ombre dei droni americani in Somalia
Si dimentica in fretta. La Somalia per esempio, il suo tragico fotomontaggio: i barbari signori della guerra, l’insanguinato check point Pasta, «Restor hope» e la fuga americana, i taleban d’Africa che si fanno chiamare Al Shabaab, le carestie assurte a simbolo della miseria angariata, le autobombe, le colleganze neppur troppo tortuose con al qaida.
È una terra, la Somalia, dove ogni zolla ha ricevuto il sudore e il sangue di generazioni, la fatica di vivere e la sobria pazienza di milioni di persone che sono ostaggi della guerra dal secolo scorso.
Vabbè, la solita Africa che non cambia mai, cose lontane da buttarsi dietro le spalle come un cencio usato.
Dopo tanto torbido narrare però si legge una notizia. Che colpisce. Gli Stati Uniti hanno deciso di istituire un sito Internet dove i civili somali potranno segnalare i danni collaterali che le operazioni militari americane contro il terrorismo hanno causato alla popolazione e avviare, come dire, «la pratica» per il risarcimento.
Insomma: il mite legalitarismo dei dollari per ammorbidire la fastidiosa resistenza anche dei più decisi ad ottenere giustizia. Strana sollecitudine per un paese che non ammette mai di aver commesso un errore militare o lo annega, disinvoltamente, nelle palingenetiche necessità della guerra al terrorismo.
Le denunce delle Ong
Dietro fanno capolino alcune denunce, dure e circostanziate, di Amnesty international: almeno una ventina di morti solo quest’anno, miti poveracci sbriciolati da droni, attacchi aerei, elicotteri. Gli americani con puntigliosa tirchieria ammettono solo alcuni casi. Ma ammettono.
Poi si scopre che la guerra americana in Somalia che conosciamo all’ingrosso è piena, in realtà, di palpiti e di ombre, ci è scivolata tra le dita andando a perdersi, con fracasso da qualche parte, nel Sud del paese.
Il cimitero degli elefanti
Chi conosce le zone tra Jilib e Baidoa nel South West, chi ne ha mai sentito parlare? Qui la terra dura arida, di una povertà bellissima e aspra, sparsa di alberi magri, diventa foresta, foresta incantata chiusa sotto un cielo di un turchino tanto denso che vi pesa sopra come una tenda. Qui il silenzio respira. Dicono che gli elefanti un tempo venissero a morire in questa selva impenetrabile. Ora custodisce i segreti degli shabaab, le loro prigioni per i sequestrati e le spie. I droni sono inutili, bisogna affidarsi alle foto-trappole come per la caccia agli animali selvatici.
Gli attacchi nel 2020
Ci sono dunque forze e fatti nuovi. Da gennaio gli attacchi Usa contro gli jihadisti africani, guidati a Africom, sede a Napoli, sono già quaranta. Realizzati con ogni sorta di strumenti bellici e di uomini addestrati nelle scienze della morte. Tanti davvero in questa epoca di America transigente e accomodante, un calendariuccio di ritiri come l’Afghanistan, di disimpegno da luoghi del mondo che diventano sempre meno aderenti agli interessi americani.
Perché la derelitta Somalia richiede un intervento generoso e intrepido da parte di isolazionisti così bigi e pantofolai? Non basta a spiegarlo certo la appena sbocciata attività delle navi da guerra cinesi nel golfo di Aden. O lo sfruttamento del più grande giacimento di petrolio offshore del mondo nel mare.
Miliziani della guerra santa
Una risposta è, innanzitutto, nella abilità dei miliziani jihadisti di perfidiare nel terrorismo: questi periferici combattenti del jihad universale, etichettati come selvatici e analfabeti pastori nomadi, espressione di una società olistica, incentrata su se stessa refrattaria alla modernità, hanno srotolato come un tappeto, una guerra micidiale e moderna. Sono diventati i primi azionisti della guerra sanata universale, quelli che mettono a segno più attentati. Fanno paura.
Hanno saputo costruire con lutti rovine delitti una gigantesca e redditizia associazione a delinquere a cui Dio e la promessa del paradiso in terra offrono efficace e solenne paludamento. Incontro perfetto tra i metodi del crimine e la guerriglia fanatica. La macchina dell’estorsione non si logora mai.
Sono tutto: esperti di racket, si infiltrano nell’economia e nella politica con abile "entrismo", sono sequestratori di stranieri (ne detengono una decina tra cui da oltre un anno l’italiana Silvia Romano), usano kamikaze e autobombe a Mogadiscio, e sono guerriglieri nella boscaglia.
I vecchi pirati del Mar Rosso che per dieci anni tennero in pugno i commerci mondiali con i loro arrembaggi li utilizzano come manodopera per lucrosi traffici di uomini, droga, armi.
I clan a libro paga
Si affacciano in questo scenario criminale e fanatico sagome di rango superiore e di ferocia più esplicita, boss viscidi e gelidi come amnyat e Fursan. Alcuni di loro che hanno cominciato a fare la guerra quando erano ancora dei caprai, ora maneggiano armi moderne, telefoni satellitari, conti in banca milionari. Le dita degli Al Shabaab affondano nel burro di un paese fragile dove i politici tengono a libro paga i clan, comprano i voti e sono sensali di potenze regionali ambiziose, dal Qatar alla Turchia, e degli stessi Shabaab. Poche ma encomiabili le figure limpide: nella politica, nell’amministrazione dove lottano contro la corruzione, nella giustizia dove sono costrette a barcamenarsi tra la sharia (la legge islamica, ndr) e il vecchio diritto italiano in teoria ancora in vigore. Nell’esercito mal armato e equipaggiato, formato spesso da ex signori della guerra riciclati per sinecura, tenuto in scacco dagli shabaab maestri nel liquefarsi in piccoli gruppi per poi riunirsi e colpire.
C’erano due modi di fare la guerra qui. Uno era aiutare questi somali decisi a spezzare il ricatto dei fanatici e dei criminali. Si è scelto invece il metodo dei raid alla cieca e di inefficienti contingenti di pace formati da stranieri, kenyani ed etiopici, che i somali vedono come invasori.
La vecchia base russa
C’è un altro luogo che spiega molte cose: Baledogle, a cinquanta chilometri da Mogadiscio verso Baidoa. È una vecchia base russa nel tempo in cui il dittatore Siad Barre nelle sue molte vite di autocrate era alleato dell’Unione sovietica. Ora è utilizzata dagli americani.
Nessuno lo sapeva fino a quando gli Shabaab l’hanno attaccata il 30 settembre scorso facendo strage di soldati. Ma non ci sono soltanto i droni e gli addestratori delle forze speciali somale, c’è un secondo segreto: una miniera di uranio sfruttata direttamente dagli americani.