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 2020  aprile 29 Mercoledì calendario

Intervista a Marta Cartabia

Presidente, come sta?
«Adesso bene, grazie». 
Marta Cartabia, presidente della Corte costituzionale, è guarita dal coronavirus e parla in video-collegamento dalla sua casa di Milano. Da lì, anche nel periodo del contagio, ha continuato a guidare il lavoro della Consulta che, seppure in forme diverse, non s’è mai fermato. 
Come ha vissuto l’esperienza di questa malattia finora sconosciuta? 
«È stato un periodo di domande e di ascolto. Come tutti, ho patito anche io un senso di impotenza e disorientamento di fronte a una realtà imprevista e drammatica, che ha provocato tanto dolore, tanti lutti e tanta solitudine. Molti aspetti ancora non noti della malattia generano paura e insicurezza, ma i medici che ho incontrato mi hanno trasmesso subito un senso di fiducia. Mi sono sentita “in buone mani”, perché avevo di fronte persone competenti, coraggiose e totalmente dedite al compito di cura e di ricerca, pur in questa situazione inedita anche per loro». 
Sul piano personale, che cosa l’ha colpita di più? 
«Il pensiero più insistente è stato verso i colleghi e il personale della Corte, con i quali ho lavorato prima di aver contratto il virus, ed è stato un grande sollievo sapere che nessuno è stato contagiato. Ma credo che dall’esperienza personale si possano trarre insegnamenti e riflessioni utili anche sul piano collettivo». 
Quali? 
«Per spiegarlo userei quattro parole, di cui ho riscoperto il valore in questo frangente. Mancanza, soprattutto degli incontri personali, a partire dai genitori anziani, le persone care o gli amici; essenzialità, grazie al gusto ritrovato per uno stile di vita più semplice; solidarietà, attraverso la scoperta di mille iniziative spontanee di sostegno alle situazioni di bisogno; creatività, nell’esplorazione di soluzioni alternative di fronte a una strada improvvisamente sbarrata. Tutto questo ci può aiutare affinché il dopo sia un nuovo inizio, non un semplice ritorno al punto di partenza». 
Nella relazione sull’attività della Corte nel 2019 lei scrive che anche nella nuova realtà la Costituzione resta una bussola indispensabile per le istituzioni e i cittadini. Dove punta l’ago di questa bussola? 
«La nostra Costituzione, a differenza di altre, non prevede lo “stato d’eccezione”. Dunque, anche in situazioni di crisi valgono i principi di sempre, ma ciò non significa che non si debba tener conto delle circostanze e delle loro peculiarità. Sul piano economico, ad esempio, l’articolo 81 prevede che il principio dell’equilibrio di bilancio tenga conto delle fasi favorevoli e di quelle avverse, ed è un’indicazione importante. Il rigore richiesto in alcuni momenti deve poter essere ammorbidito nelle situazioni in cui occorre sostenere la ripresa economica, come peraltro già sta accadendo. La Costituzione è piena di clausole che richiedono di modulare i principi sulla base dei dati di realtà e dei diversi contesti. Potremmo dire che i principi costituzionali sono sempre finestre aperte sulla realtà». 
In una situazione di emergenza, però, servono soluzioni di emergenza che finiscono per provocare divisioni e polemiche, come in questi giorni. 
«Io non posso entrare nel merito delle singole questioni di attualità che potrebbero tutte arrivare al vaglio della Corte, ma voglio ricordare che nella Costituzione sono indicate le ragioni che possono giustificare limitazioni dei diritti e gli strumenti con cui tali limitazioni si possono imporre. Nella giurisprudenza costituzionale, poi, si trovano orientamenti anche sulla misura di queste limitazioni, che devono sempre essere ispirate ai principi di necessità, proporzionalità, ragionevolezza, bilanciamento e temporaneità». 
Che significa, in concreto? 
«La Corte costituzionale ha affermato in varie occasioni che più la compressione di un diritto o di un principio costituzionale è severa, più è necessario che sia circoscritta nel tempo. Le limitazioni si giudicano secondo il test di proporzionalità che risponde a queste domande: si sta perseguendo uno scopo legittimo? La misura è necessaria per quello scopo? Si è usato il mezzo meno restrittivo tra i vari possibili? Nel suo insieme, la norma limitativa è proporzionata alla situazione?». 
Lei dice, nella relazione, che nei momenti di emergenza occorre un sovrappiù di responsabilità. Lo sta dicendo ai politici, che fra l’altro stanno già usando le sue parole nelle polemiche con il governo? 
«Non mi permetterei mai. La mia è una considerazione di carattere culturale, da sempre parte del mio pensiero accademico, che vale per tutti, a tutti i livelli, me compresa. Un sovrappiù di responsabilità vuol dire che di fronte a un problema occorre anzitutto cercare i punti di forza di una soluzione che consideri tutte le condizioni e i condizionamenti del momento. Certo, ogni decisione può essere criticata: il confronto è parte essenziale della vita di un Paese democratico; sarebbe però opportuno che la critica avesse sempre anche una parte costruttiva. Si tratta di attivare una sinergia che aiuti a trovare strade per uscire dalla palude, senza restare impantanati nella sterile lamentela».
È questo che intende quando afferma che occorre rafforzare la leale collaborazione tra le istituzioni? 
«Anche questo. La leale collaborazione è un valore costituzionale che riporta a ciò che il presidente della Repubblica ha sottolineato più volte nei suoi ultimi interventi, parlando di coinvolgimento, condivisione, concordia, unità di intenti. Noi abbiamo superato tante emergenze, dal terrorismo alle crisi economiche, ma questa è diversa perché, come ci ha ricordato con straordinaria efficacia papa Francesco, ci ha messo di fronte al fatto che “nessuno può salvarsi da solo”. Ci ha fatto riscoprire il senso di appartenenza. La solidarietà non è una scelta per generosi, bensì una componente strutturale della condizione umana: vale per le persone, perché ognuno di noi è sia un individuo sia un soggetto in relazione, e vale per le istituzioni. La leale collaborazione tra poteri è il risvolto istituzionale della solidarietà». 
Ma i poteri rivendicano la loro autonomia, dando luogo ai conflitti che si stanno riproponendo in questa fase di emergenza, per esempio tra Stato centrale e Regioni. Come si possono superare? 
«Riguardo al rapporto tra Stato e Regioni, la Costituzione traccia una divisione delle competenze e indica i rispettivi ambiti d’intervento, ma poi nella realtà spesso le competenze s’intrecciano. Faccio un piccolo esempio tratto dalla nostra giurisprudenza, seppure molto lontano dalla stretta attualità: una norma che disciplina la cattura degli orsi e dei lupi, in quale materia rientra? Nell’ambiente, certamente, per via della tutela delle specie protette. Ma ci sono anche aspetti riguardanti l’agricoltura e l’allevamento, che possono risentire della presenza di questi animali, affascinanti e pericolosi; e c’è la sicurezza delle popolazioni. Come vede, anche una norma così specifica interseca competenze diverse, alcune statali e altre regionali. Figuriamoci quando le cose si fanno più complesse come nella circostanza attuale. Perciò la realtà impone una cooperazione che d’ora in avanti sarà ancor più necessaria, direi indispensabile. I luoghi e i modi ci sono già. Bisogna partire da lì». 
E la cooperazione tra Corte e Parlamento? 
«La giustizia costituzionale e l’attività legislativa sono due ambiti distinti. Ma la separazione dei poteri non è in contrapposizione con la cooperazione istituzionale, anche tra Corte e legislatore. Anzi. L’indipendenza della Corte non contraddice l’interdipendenza tra le istituzioni, valore trascurato ma altrettanto importante, specie in società complesse come le nostre. Sono binomi di principi da mantenere sempre nel giusto equilibrio». 
Spesso i vostri moniti che sollecitano riforme legislative, come nel caso del «fine vita», rimangono inascoltati. 
«Credo che le nostre decisioni dovrebbero sempre essere lette nella loro integralità. Una sentenza non si esaurisce nel dispositivo che decide se una legge è compatibile o no con la Costituzione. Ogni sentenza ha una motivazione, spesso ampia e ricca, che offre interpretazioni utili anche per casi ulteriori e talora segnala la necessità di un “seguito” da parte di altri soggetti. Tanti inviti contenuti nella giurisprudenza della Corte sono rimasti inascoltati, penso più per disattenzione che per cattiva volontà; gli esempi virtuosi non mancano, ma sono ancora troppo pochi. L’interlocuzione tra la Corte e il Parlamento può migliorare, anche sul modello di altri Paesi». 
Ma siete stati già criticati per l’eccessiva «creatività» di alcune vostre pronunce, non teme nuove accuse di invasione di campo? 
«Qui occorre chiarire un equivoco. La Corte, è vero, nel tempo ha sperimentato soluzioni innovative dal punto di vista della tecnica decisionale; ma la “creatività” di cui lei parla non è stata un’invasione di campo, semmai l’esatto contrario: ha avuto lo scopo di lasciare in prima battuta la parola alle Camere ed è espressione del rispetto per gli spazi del legislatore. Tuttavia, è ovvio che la Corte non può mai rinunciare al suo compito di garantire i principi costituzionali e, alla fine, di giudicare la costituzionalità della legge portata al suo esame. Se non lo facesse, sarebbe molto grave».