il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2020
Intervista a Giampaolo Morelli
I problemi quotidiani non sono solo le pulizie, la spesa, il lavoro, magari un film appena uscito, ma anche ristudiare a 46 anni le “addizioni in colonna, la scansione in sillabe, l’italiano. E soprattutto fingere preparazione e sicurezza: con i figli è fondamentale”.
Giampaolo Morelli per addizioni e sillabe non può indossare gli occhiali a goccia di quando interpreta l’ispettore Coliandro, meglio il ruolo romantico, un po’ credulone, finto pragmatico di Giulio, protagonista di 7 ore per farti innamorare: storia divertente e ben costruita di un promesso sposo lasciato alla vigilia delle nozze per corna conclamate, e impegnato in un training per acquistare sicurezza, fascino e cinismo.
Per Morelli, già attore feticcio dei Manetti Bros, è l’esordio alla regia, e intorno a sé ha ottenuto un gruppo di colleghi-amici “perché sul set hai bisogno di persone affidabili e talentuose, soprattutto con un’opera prima”.
Beghe da esordio?
Non hai gli agi tipici di chi ha già dimostrato di saper portare a casa un film, ed è giusto, visto che il cinema è una macchina costosa, è una responsabilità non piccola.
Un agio che le è mancato…
Il tempo: ho girato in sole quattro settimane e due giorni, una sorta di miracolo; (sorride) per fortuna da attore sono sempre stato molto vicino ai registi, ho sempre cercato una visione dell’insieme.
Come è nata questa avventura?
Non scalpitavo, non sapevo neanche di essere in grado, però avevo scritto due storie: una molto più autoriale, un’altra più romantica; poi Federica Lucisano (la produttrice) ha letto il romanzo e dopo due giorni mi ha chiamato: “Giriamolo”.
E lei?
Mi è preso un colpo.
Punti di riferimento?
Sono nato e cresciuto con le cassette di Eduardo de Filippo, e sento forte la cultura napoletana; a questa associo una passione per le commedie statunitensi.
Competitivo?
Il giusto, non credo di essere malato; (ci pensa) non provo l’invidia cattiva: se non arrivo a un obiettivo, mi interrogo sui possibili errori commessi o in assoluto sulle mie qualità.
Il suo primo set.
Studiavo giurisprudenza, poi un giorno leggo un annuncio sul Mattino: “Vuoi diventare attore? Hai la faccia tosta? Allora vieni a Roma, Sindoni sarà presente”.
Partito.
Presi il treno all’alba e al teatro trovai una fila di 300 persone; l’incaricato delle prime selezioni era Marco Manetti (dei Manetti Bros).
E poi?
Vinsi il provino, seguito da un “ci faremo sentire”. Mi chiamarono dopo settimane, e quella telefonata non mi sembrò vera.
Cioè?
Quando mi dissero il compenso, cinque milioni di lire, iniziai a balbettare tanto che l’incaricato si preoccupò: “Va bene?” Io sbiascicai “sì”. In realtà stavo urlando, mi sembravano un’infinità. Avevo vent’anni.
Insomma, primo giorno di set…
Deludente: mi aspettavo un luogo dove tutti lavoravano per il bene del film, avvolti dalla gioia, mentre ogni minuto scoprivo qualcuno che si rompeva le scatole.
Eppure…
L’errore era in partenza: non avevo inquadrato il set sotto la sfera “lavoro”, e il lavoro ha le sue rogne; così ancora oggi quando mi domandano: “Mi dice qualcosa di divertente del set?”, rispondo: “Non esistono, ti fai un culo dalla mattina alla sera”.
Con tempi infiniti.
Circa 12 ore al giorno.
Oggi come giudica il suo esordio?
Lasciamo perdere, qualcosina c’era, ma questa professione si impara sul campo: non sono nato genio e, in assoluto, a quel tempo non ero sciolto.
Timido?
Iscritto in primina a quattro anni e mezzo; a 12 ero al ginnasio…
Un pupo.
Liceale con voce bianca.
La prendevano in giro?
Sono stato bravo a sparire, a mimetizzarmi, a non cadere nella trappola dei bulli; tutta questa fatica me la sono portata dietro, per questo non ero scioltissimo.
Però prestigiatore.
Frequentavo una scuola di magia e ciò fa capire che ero un nerd…
Quando ha smesso di esserlo?
In realtà chi lo è in quella fase della vita, lo resta sempre; al massimo può cercare delle armi sostitutive, delle strategia per apparire altro.
Studiava?
Non molto, non riuscivo a concentrarmi, la testa mi partiva per viaggi lontani, e non seguivo la lezione.
Da regista, come si è comportato da attore?
Non male, ma potevo dare di più: ero così concentrato sul film da lasciare la recitazione come ultimo dei problemi.
Difetto.
Ne ho mille; sono testa dura e m’incazzo.
Vizio.
Quello vero non lo dico.
Scaramanzia.
La grattatina con garbo, non la nego.
Sex symbol.
Magari! Quando me lo dicono ringrazio sempre.
Chi è lei?
E come faccio? (Ride) Mi dia un aiuto.
Un figlio della tradizione napoletana?
No, troppo! Sono uno che ci prova.
(All’improvviso il richiamo della casa: “Papà, i compiti”. (sospiro) “Arrivo”)