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 2020  aprile 28 Martedì calendario

Intervista alla scrittrice premio Nobel Olga Tokarczuk

Olga Tokarczuk, quando abbiamo parlato un anno e mezzo fa, ha affermato che il mondo avrebbe dovuto fermarsi. Aveva detto: «Qualcosa dovrà accadere».
«Pensavo a quello che molti di noi sentivano: nel profondo sapevamo di essere giunti a un muro, e che qualcosa doveva accadere. Penso però che alla maggior parte della gente non sia mai venuto in mente che una pandemia avrebbe potuto fermare e paralizzare il mondo. Ci è mancata anche l’immaginazione per ammettere il pensiero che questo mondo mobile, globale, pieno di gente, non poteva funzionare all’infinito in base ai vecchi principi».
Lei si è adeguata a questa situazione di chiusura, di isolamento, di arresto forzato?
«L’epidemia mi ha raggiunto mentre stavo partendo per un lungo viaggio promozionale. Avrei dovuto viaggiare per più di un mese e tornare appena prima di Pasqua.
Avevo già fatto i bagagli quando ho saputo che dovevo annullare il viaggio. In un certo senso, l’ho accettato con sollievo.
Recentemente la mia vita ha avuto una forte accelerazione, succedevano troppe cose ed ero davvero stanca. Sono abituata a lavorare a casa; mio marito mi prende in giro, dice che viviamo in un ufficio con possibilità di pernottamento. Dopo la prima settimana di riposo e letture, mi sono messa al lavoro: peccato, forse avrei potuto affrontare questo tempo in un altro modo, come nell’infanzia, quando ci si poteva annoiare impunemente o semplicemente si aveva più tempo per tutto. Ma, a quanto sembra, devo per forza fare sempre qualcosa».
Questo tempo che viviamo e che durerà ancora, ci servirà a qualcosa?
«Se cercassi una metafora per quello che adesso – a prescindere dalla latitudine – sperimentiamo, direi che siamo sottoposti a un test.
Qualcosa ci sta testando.
Non so se sia un fato, un demone, la Natura, Dio o qualcosa di impersonale, un caso? Ci sta testando e su diversi livelli. Dice: "Verifico!". A livello individuale scopriamo quei nostri bisogni che avevamo ormai dimenticato: la pace, il distacco, la riflessione, la noia. Restando chiusi in casa, possiamo guardare con attenzione noi stessi e i nostri limiti. Dove è il nostro punto di rottura, quanto riusciamo a sopportare, dov’è il nostro centro? In che misura vivo realmente la mia vita? Sono ancora io, o forse si tratta di rituali e comportamenti imposti? Questo tempo è un test per noi e per i nostri cari. Si potrebbe scoprire che, contrariamente alle lodi e alle dichiarazioni, la famiglia non è affatto la cosa più importante e più bella, che per molti la vista di una persona amata e lo stare con lei tutto il giorno senza interruzioni diventa insopportabile. Che i propri figli ci irritano. Che il lavoro è qualcosa che bisogna imporsi e che in realtà si odia. Probabilmente faremo molte di queste amare scoperte. Sono sicura che questa chiusura imposta diventerà qualcosa di insopportabile per le persone sensibili, con problemi psichici».
Ormai è chiaro, e non è soltanto l’esempio ungherese, che la pandemia può offrire un perfetto pretesto ai governanti per un ulteriore consolidamento del potere.
«Situazioni come questa sono molto allettanti per satrapi di ogni tipo. Ma non si può assimilare ciò che sta succedendo agli anni Trenta del Novecento. Quell’epoca affascina la gente per vari aspetti, lo si vede nella moda, nel design.
Eppure è una cosa diversa, qui agiscono altre variabili, come la crisi climatica. Internet ha fatto di noi una società nuova, in cui le persone comunicano incessantemente. Molte cose accadono per la prima volta. Forse alcuni hanno già dimenticato che prima dello scoppio della pandemia Greta Thunberg rivolse un appello alla moderazione a tutti i potenti di questo mondo, e anche a noi, gente ordinaria. Perché moderassimo i consumi e la smettessimo col prendere l’aereo così spesso solo per vedere la Gioconda . Le sue parole venivano accolte con commiserazione da uomini d’affari e politici.
All’improvviso si scopre che azioni radicali sono possibili, perfino indispensabili, per esempio il lockdown. Penso che diventeremo più radicali e cercheremo soluzioni più radicali. Il cambiamento è sempre possibile, non siamo costretti a vivere nello sconforto e nell’impotenza».
Nell’articolo pubblicato dalla "Frankfurter Allgemeine Zeitung" lei ha scritto che «arrivano tempi nuovi» e sull’Unione Europea che «in questo difficile momento si è visto quanto è debole in pratica l’idea di comunità».
«Quando parlo dell’Unione, penso prima di tutto all’idea di comunità di questa piccola penisola chiamata Europa. È abitata da diverse culture che parlano lingue diverse e che hanno una storia a volte comune, a volte diversa. Queste etnie hanno formato stati nazionali nel XIX secolo. Eppure sono riuscite a unirsi di nuovo, aprire le frontiere, permettere alla gente di incontrarsi e stare insieme. È questa la mia Europa, mi sento legata ad essa non meno che alla Polonia o alla mia Bassa Slesia. Una delle maggiori delusioni delle ultime settimane è la chiusura delle frontiere. Il primo impulso atavico è stato diretto contro la comunità; un ritorno regressivo al passato e all’illusoria sensazione di sicurezza. Un giorno sono semplicemente tornate le frontiere. Mi stupisce come questo vecchio ordine nazionale resti appena sotto la superficie e quanto sia facile ripristinarlo. Ho paura di una situazione in cui tutto ciò che abbiamo costruito negli anni potrebbe crollare. Ho paura anche della xenofobia che cresce con il virus».
Quando il mondo che conosciamo tornerà alla norma? E riuscirà a farlo?
«Dobbiamo ridefinire la parola "norma". Temo che il ritorno a quello che c’è stato non sarà più possibile. Ricorderemo il mondo di prima dell’epidemia come un’epoca passata».