Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  aprile 28 Martedì calendario

Il petrolio invenduto parcheggiato in treni e grotte

La corsa all’oro nero ribalta – causa crollo di prezzi e domanda – le sue priorità. Trovare nuovi giacimenti di petrolio nell’era della pandemia è antieconomico. I big del settore hanno sforbiciato gli investimenti per cercare nuovi pozzi. E il loro problema numero uno è oggi l’opposto: trovare posto dove mettere il greggio di troppo che hanno estratto. Parcheggiandolo dentro i tubi degli oleodotti, affittando treni-cisterna e navi, restaurando depositi di carburante dismessi. E arrivando al limite – un po’ paradossale – di rimetterlo da dove è venuto: sotto terra, in apposite caverne, in attesa di tempi (e quotazioni) migliori.
Il problema di “stoccaggio” che cruccia il mercato – il valore del Wti texano con vendita a giugno è crollato ieri del 22% – è semplice come la fredda logica dei numeri: il mondo, paralizzato dal coronavirus, consuma oggi 70 milioni di barili al giorno rispetto ai 100 pre-pandemia. I tagli dei produttori dell’Opec (9,7 milioni) e la chiusura del 58% dei giacimenti Usa non bastano a compensare il crollo del 30% della domanda. Risultato: ogni giorno si estraggono 10 milioni di barili in più di quelli che si vendono. E nessuno sa dove metterli: i depositi strategici americani di Cushing in Oklahoma sono al limite della capienza o già prenotati dagli operatori più previdenti, molte raffinerie non accettano più greggio, 160 milioni di barili sono fermi in mare su superpetroliere noleggiate a peso d’oro. E nel settore è partita la caccia frenetica a soluzioni d’emergenza per immagazzinare il petrolio che non trova acquirenti.
La soluzione più gettonata è stata quella dei treni. Con il mercato in stallo, gli enormi convogli ferroviari Usa per il trasporto di greggio – capienza 70mila barili l’uno – sono sottoutilizzati e il prezzo mensile per l’affitto è crollato da 800 a 500 dollari a carro. Molti quindi sono stati opzionati come parcheggi temporanei su rotaie dell’oro nero. Unico problema: la resistenza di alcuni gestori ferroviari come Union Pacific e Bnsf (controllate da Warren Buffett) che si sono rifiutati – per ragioni di sicurezza – di ospitarli sui loro binari morti. Un altro fiume di greggio in surplus è finito stoccato temporaneamente negli oleodotti inutilizzati, con il rischio di creare conflitti legali tra proprietari dei tubi e raffinerie cui sono collegati. E una marea di prenotazioni è arrivata anche ai proprietari di cisterne in disuso, dai vecchi campi petroliferi abbandonati a quelli delle imprese dello shale oil che hanno smesso di estrarre idrocarburi perché a queste quotazioni sono fuori mercato. L’idea più ardita è stata però quella di riportare il petrolio nel sottosuolo da cui è arrivato. Svezia, India e Usa hanno sistemi di caverne (spesso ex-miniere di sale) riadattate a depositi di idrocaburi. Molte riserve strategiche americane sono in grotte di Louisiana e Texas con capacità di 797 milioni di barili. Anche qui però, per chi ha provato a prenotare un po’ di spazio, la risposta è stata sempre la stessa: «Tutto esaurito».