Huffington Post, 28 aprile 2020
La quarantena di Antonio Pascale
All’inizio, davanti al Covid-19 ha fatto il fenomeno: «Sono andato al supermercato e ho rassicurato tutte le persone spaventate che ho incontrato. Dicevo che non era niente, che bisognava stare calmi, non farsi prendere dalle paranoie. Mi son ritrovato in fila alla cassa con tre carrelli della spesa riempiti fino all’orlo. Non mi era mai successo nella vita. Lì ho capito che la mia testa minimizzava, mentre il mio inconscio era terrorizzato». Dopo quarantanove giorni in casa, Antonio Pascale è uno scrittore che ha poca voglia di pensare alle «cose futili degli scrittori». Ovvero: «Come raccontare gli incontri che non ci sono più. Le facce spaventate sotto le mascherine. Gli amori che sono diventati impossibili». Sente che c’è qualcosa di più serio su cui mettere la testa.
«Da quando abbiamo chiuso tutto, il mondo si è raggelato. Le coordinate che avevamo per orientarci sono saltate. È un trauma. Uso proprio questa parola: trauma. Non sappiamo cosa succederà. Come ci riprenderemo. Quante persone perderanno il lavoro e scivoleranno nella povertà. Quanta forza avremo per far partire progetti nuovi. E quanti soldi per realizzarli. L’incertezza ci atterrisce. Ci immobilizza. Ci spaventa». I traumi funzionano così: «Davanti a essi, in genere, gli uomini adottano due modalità: o scappano o si bloccano». Noi abbiamo scelto la seconda strada. E non basterà il 4 maggio per ripartire. «Il trauma ritorna. È come un attrattore. Basta un’immagine, un odore, un gesto, per riportarti lì, nel posto in cui credevi di non dover rimettere più piede. Il trauma va superato. Ma per superarlo bisogna prima riconoscerlo. Poi, affrontarlo. Infine, elaborarlo».
E come si fa quando è un trauma che riguarda tutti?
«Ognuno di noi farà i conti singolarmente con questa storia. Chi è più fortunato, riprenderà pian piano il suo cammino. Chi è meno fortunato, e ce ne sono tanti, avrà bisogno di nominare quello che gli è successo, di confessare che è stato male. Altrimenti, rischierà di sentirsi pazzo. Si chiuderà in se stesso. Svilupperà rabbia. Non avrà più voglia di conoscere niente. Sentiamo dire: ‘Non bisogna lasciare le persone sole’. Ma non bastano i soldi. Ci vuole anche qualcos’altro. Un racconto collettivo. Un ascolto collettivo».
Ma in fondo che ci è successo? Siamo stati solo in casa.
«E crede che sia poco? È una prigionia di massa, una condizione anti umana. Non ci trovo proprio niente da ridere. Non trovo divertenti le battute su noi che stiamo sul divano e crediamo di essere in trincea. Abbiamo sperimentato una condizione di privazione molto forte. Sì, abbiamo cantato l’inno nazionale sul balcone. Ma quanto dura una canzone? Poi, la natura umana scalpita. Vuole andare fuori. Prendere un caffè. Vuole sentire cosa dicono gli altri. Vuole abbracciarli. Mentre la logica della prevenzione dice: “Che diavolo ti passa per la testa? Stai alla larga!”. Finché queste privazioni dureranno, creeranno problemi. Possiamo far finta che non sia così. Appunto, adottare la modalità della fuga. Ma il trauma rimarrà lì, in agguato».
Non possiamo ricavarne anche qualcosa di buono?
«Non ci credo a questa storia della redenzione. L’idea del grande ritrovamento. Come non penso che precipiteremo nel burrone della depressione per sempre».
A cosa crede allora?
«Credo nei buoni esempi. Le persone tendono a seguirli. Da adolescente, ho vissuto il mio trauma anche io. So cosa significa sentirsi raggelato. Ne uscii leggendo Arthur Rimbaud, in una strana notte in cui il mondo si era fatto, ai miei occhi, bruno. Era una poesia che invitava ad attraversare i campi di grano nelle sere azzurrine d’estate, a lanciarsi nell’avventura, a conoscere, ad andare. Anche oggi il mondo è adombrato. E dobbiamo trovare il modo di illuminarlo di nuovo».
Da dove partirebbe?
«Dal primo momento in cui sono stato chiuso in casa, ho pensato che vivere la prigionia collettivamente potrebbe farci capire meglio l’orrore del carcere. Ho pensato: “Ma chi, dopo questa storia, potrà non comprendere che stare in galera non significa solo perdere la libertà, che è già tremendo, ma significa anche fare i conti con la testa che ti parte? Perché se ti parte stando sul divano, figurati come ti parte se sei chiuso in cella”».
E se invece andremo alla caccia di un colpevole?
«Non mi sento di escluderlo. Perché la sofferenza che abbiamo vissuto è profonda. E quanto più è forte il dolore, quanto più è difficile portarlo da soli sulle proprie spalle. È più semplice fare il contrario: sbatterlo addosso a qualcun altro. È la paura che ho. Ho paura che ci avvinghieremo alle cose più vicine che abbiamo e scacceremo quelle che ci appaiono lontane, straniere. Certo, sarebbe un disastro».
Non succedeva anche prima?
«Ma appunto. Era già difficile prima, in una situazione ordinaria, non rifiutare ciò che non ti assomiglia. Adesso come sarà? Considereremo l’altro untore? E noi stessi, ci sentiremo in colpa per il rischio che corriamo di infettare gli altri? C’è un dolore di troppo, in questa storia. Ci sarà ancora di più dopo. Dovremo trovare il modo di gestirlo. Impedendogli di ridurre il nostro sguardo dentro un orizzonte piccolo piccolo. Per questo dico che la fase due sarà difficilissima».
L’igiene – la purezza – sarà necessaria.
«Temo di sì».
La preoccupa l’anti letterarietà della cosa?
«L’idea della purezza è ancestrale. Probabilmente, è nata per risolvere il dilemma dell’onnivoro. Per distinguere, cioè, quello che fa bene, da quello che fa male».
Non è sano farlo?
«All’origine sì. Poi, con l’evoluzione, diventa problematico. Perché stabilisce un confine, fuori dal quale tutto diventa impuro, dunque malvagio, minaccioso. Al contrario di quello che c’è dentro, che invece nutre, protegge, rinsalda».
Invece?
«Invece, la cultura serve proprio a farti attraversare il confine. A riconoscere che l’impurità è anche dentro di te».
Cosa cambia?
«Cambia tutto. Perché la purezza acceca. Nasconde la realtà. Ti rende estraneo al mondo. E a cosa serve l’arte, se non a questo? A spingere l’uomo nell’avventura dell’impurità, nella sporcizia della vita».
È quello che si augura?
«Sì, mi auguro che presto potremo tornare a non dover disinfettare la vita, riconquistando la libertà più grande che abbiamo: non essere puliti».