Corriere della Sera, 28 aprile 2020
La bufera sul capo delle carceri
La poltrona del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, è a forte rischio. Nulla è stato ancora deciso, ma si fanno sempre più insistenti le voci di un’imminente sostituzione, sollecitata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede anche dall’interno del Movimento 5 Stelle. Il magistrato scelto due anni fa dal Guardasigilli per governare le carceri italiane è da tempo al centro di critiche e malumori, e già dopo i tumulti di inizio marzo (13 detenuti morti, 40 agenti penitenziari feriti e danni alle strutture per milioni di euro) i renziani di Italia viva ne hanno chiesto la rimozione, mentre il Pd esigeva chiarimenti sul suo operato. Bonafede ha resistito, ma dopo il «caso Zagaria» è difficile continuare a fingere che tutto vada bene. E la presentazione di un decreto-legge per stabilire un’interlocuzione obbligatoria con la Procura nazionale antimafia e le Direzioni distrettuali prima di decidere sulla scarcerazione dei capi delle organizzazioni criminali potrebbe non essere l’unica mossa del ministro.
La concessione degli arresti domiciliari al boss della camorra casalese Pasquale Zagaria (fratello del capoclan Michele, soprannominato Bin Laden per la sua capacità di sfuggire alle ricerche quando era latitante), trasferito per motivi di salute dai rigori e l’isolamento del «41 bis» alla casa della moglie a Brescia, ha suscitato scalpore e polemiche. Soprattutto per una frase contenuta nell’ordinanza dei giudici di sorveglianza di Sassari che l’hanno fatto uscire dalla prigione sarda dove non poteva più essere curato dal tumore scoperto ad ottobre: «Il tribunale ha chiesto al Dap se fosse possibile individuare altra struttura penitenziaria sul territorio nazionale ove effettuare il follow-up diagnostico e terapeutico, ma non è pervenuta alcuna risposta, neppure interlocutoria».
Basentini, intervenuto telefonicamente domenica sera nella trasmissione Non è l’arena su La7, ha tentato di smentire. I suoi uffici hanno riferito di almeno tre comunicazioni inviate via e-mail alla Sorveglianza, tuttavia agli atti del fascicolo su Zagaria (ora all’esame delle Procure generali di Sassari e della Corte di cassazione, per le necessarie verifiche) c’è solo una lettera firmata dal direttore dell’Ufficio sanità del Dipartimento, indirizzata al direttore del carcere, in cui si chiedeva di «voler contattare, con la massima urgenza, i Reparti di Medicina protetta di Viterbo e di Roma, al fine di verificare se vi sia la disponibilità della presa in carico sanitaria del detenuto».
Il problema è che questa lettera è datata 23 aprile 2020, è arrivata nel tardo pomeriggio dello stesso giorno ed è stata protocollata la mattina dopo. Nel frattempo, la mattina del 23, il tribunale di sorveglianza aveva deciso di scarcerare Zagaria dopo quattro udienze e un mese di approfondimenti istruttori; tra i quali la ricerca di un’altra prigione attrezzata per le cure (non più possibili a Sassari a causa dell’emergenza coronavirus) tramite il Dap, notificata il 9 aprile. Ma fino al 23, a causa già definita, da Roma non sono giunti segnali. Due settimane di ritardo, decisive per la scarcerazione del boss. Trattato come un detenuto qualunque nonostante il cognome (e il soprannome), con un atteggiamento forse un po’ troppo burocratico da parte dell’amministrazione penitenziaria. Che ora potrebbe travolgere il suo capo.