La Stampa, 28 aprile 2020
Intervista allo sceneggiatore Nicola Guaglianone
Se un uomo nudo corre nella foresta, non si può farlo uscire senza graffi. Ecco, noi dovremo raccontare quei graffi, in qualche modo». Nicola Guaglianone usa questa metafora per spiegare come la sceneggiatura non potrà non tener conto dell’ impatto del Coronavirus sull’intera società, ma di come allo stesso tempo il racconto potrà non parlarne direttamente. Romano, 47 anni tra pochi giorni, cresciuto a pane e Leo Benvenuti (è stato suo allievo ai corsi di sceneggiatura tenuti dall’Anac), è uno degli sceneggiatori del momento.
Reduce dal campione d’incassi dello scorso anno, Il Primo Natale con Ficarra e Picone, nella sua carriera ha scritto diversi successi: Benedetta follia di Carlo Verdone, Non ci resta che il crimine di Massimiliano Bruno, La Befana vien di notte con Paola Cortellesi fino ad arrivare a Suburra la Serie, la prima serie tv italiana prodotta da Netflix . A consacrare la sua carriera è stato Lo chiamavano Jeeg Robot nel 2016 diretto da Gabriele Mainetti. Com’è la vita di uno sceneggiatore ai tempi del virus?
«Parto dal presupposto che sono ipocondriaco, vivo da sempre con l’amuchina nel taschino e la paura dei contagi. Aggiungiamoci che sono un po’ sociopatico, dunque, questa situazione è la mia apoteosi (ride). Per il resto, la maggior parte delle riunioni che facciamo in produzione si possono fare benissimo anche da casa. Sicuramente mi manca il pranzo nelle trattorie di quartiere. Anche potersi fare una passeggiata in totale libertà. Camminare mi fa venire idee».
Se dovesse scrivere un soggetto sul periodo, cosa farebbe?
«L’11 settembre ha fatto scoprire all’America di essere vulnerabile e un film che ha rappresentato quello smarrimento era La 25° ora con Edward Norton, che parlava di tutto tranne che di terrorismo. Ci vorrà ancora un po’ per rielaborare quello che stiamo vivendo, quel senso di impotenza, di separazione. Solo quando si danno nomi e cognomi ai numeri si toccano i nervi scoperti. Il bagaglio di queste emozioni, la gioia di una coppia che si ritrova piuttosto che il dolore della separazione, può esser raccontato in altri contesti».
Come cambieranno le storie dopo il Covid-19?
«Faccio un esempio, sto scrivendo una scena in cui i personaggi partono, ma come sarà il mondo tra un anno e mezzo quando ipoteticamente potrebbe uscire questo film? Dovremmo parlare del Coronavirus? Non necessariamente i personaggi avranno la mascherina e l’amuchina, terrorizzati dal contatto umano, però allo stesso tempo non possiamo far finta di niente. Ripeto, è come se un uomo nudo corresse nella foresta, non si può farlo uscire poi senza graffi. Noi dovremo raccontare quei graffi, in qualche modo».
Cosa ci dobbiamo aspettare da Freaks Out, tanto atteso dopo Lo chiamavano Jeeg Robot?
«Il montaggio è finito e la post produzione, legata agli effetti speciali che prevede il film, procede. Non posso anticipare molto, però posso garantire che chi ha apprezzato Jeeg, troverà pane per i suoi denti . Continuiamo a usare lo stesso linguaggio, adottato da me e Gabriele (Mainetti, ndr) sin da quando facevamo i nostri cortometraggi. Il film dovrebbe uscire il 22 ottobre nelle sale, ma purtroppo dobbiamo vedere che succederà».
A cosa sta lavorando?
«Sto riflettendo su forme di racconto più lungo. Voglio cominciare a dedicarmi a progetti dove posso avere un controllo più forte sul risultato finale, come avviene negli Stati Uniti con lo showrunner. Ho aperto la mia società qualche anno fa, con cui stiamo producendo un documentario e un podcast attualmente, e dunque vorrei concentrarmi sulla realizzazione di contenuti, che possano dare spazio soprattutto ai giovani. Seneca diceva d’altronde che "la fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità". Ecco vorrei poter dare delle opportunità, come ho avuto io».