Il Messaggero, 28 aprile 2020
Biografia del medico visionario Johaann Friedrich Struensee
«Non si conoscono altre situazioni in cui una sola persona abbia cercato di compiere una rivoluzione illuministica in diciotto mesi. È eccitante constatare come un giovane intellettuale possa avere avuto tutto questo potere e, poi, sia andato verso la rovina finale, un baratro in cui è sprofondato. Ogni intellettuale, in teoria, sogna di vivere in una situazione simile». Per Olov Enquist, il grande scrittore svedese scomparso l’altro ieri a 85 anni, così parlava del medico d’Antona Johaann Friedrich Struensee, il protagonista del romanzo Il medico di corte, forse il suo migliore, quello più conosciuto grazie anche alla versione cinematografica, Royal Affair di Nicolaj Arcel.
L’INTRIGO
Appassionato innovatore della società danese, ateo e illuminista, innamorato della giovane regina Carolina in un intrigo di potente effetto narrativo, Struensee visse un’avventura unica: quella di una nascente e folgorante rivoluzione illuminista che anticipò di qualche anno (siamo nel 1768) la svolta segnata dalla presa della Bastiglia a Parigi. Una rivoluzione, la sua, con importanti riforme che investiva molti settori, voleva ristrutturare finanza e economia, riordinare l’amministrazione, trasformare nel profondo i rapporti giuridici tra individui e classi sociali.
Enqvist racconta in modo avvincente Struensee, la sua vicenda politica, umana, intellettuale, seguendolo nella parabola da oscuro giovane medico tedesco a onnipotente precettore del re danese, dentro i meccanismi del potere, stritolato nel gioco delle passioni e del potere che lo distruggerà.
L’EPILOGO
Finirà decapitato e letteralmente squartato in piazza, dinnanzi allo spettacolo della folla accaldata e plaudente, che anticipa le tricoteuses della rivoluzione francese. Una figura emblematica e tragica, quasi un simbolo del rapporto tra intellettuali e potere, un intellettuale il cui esempio è un inno alla solidarietà umana e alla forza necessaria per difendere i propri ideali anche quando il suo sforzo non è riconosciuto, almeno dai contemporanei. Ma anche, drammaticamente, uno sconfitto dalla storia, un vinto che esce di scena nel più barbaro dei modi. Tuttavia la sua volontà (quasi avesse saputo del non molto tempo a sua disposizione) nello sfornare decreti che rivoluzionarono nel concreto l’immobile società danese del tempo, dalla libertà di stampa, al vaccino contro il vaiolo per tutti, agli aiuti per i figli illegittimi. E gettano un germe di cambiamento, rendono reale l’utopia e il desiderio di cambiare (in meglio) il mondo.
IL GAP
Tra le ragioni del suo fallimento c’era anche il gap fra il tempo (breve) delle decisioni politiche che vogliono scatto, intuito, velocità e il tempo più lungo, anche dilatato della progettualità intellettuale che ha bisogno di verifiche continue e magari ripensamenti e spesso una vera e propria resettazione concettuale. È il dilemma dell’intellettuale di fronte all’azione, a ciò che essa comporta nell’immediato tenendo presente il campo dentro cui deve muoversi. Per Enquist il vero conflitto del medico-precettore-dittatore, che lo porta al fallimento della propria utopia, dipende dal fatto che egli è in fondo anche un cattivo politico. Non sa analizzare la situazione completa. Non capisce dove siano i nemici, gli alleati, le forze in campo. Si limita a vedere ciò che giusto e ciò che è sbagliato. E cerca di realizzare solo il giusto. Non bastano i buoni propositi, la breve felicità di una passione compromette la rivoluzione.
SCONFITTO
Riflettendo sull’identità del suo eroe sfortunato, sconfitto dalla storia, cercando di attualizzare il suo esempio e il suo fallimento, e come in quell’esempio fosse inscritto anche il DNA del suo fallimento, Enquist così ragionava: «Per la maggior parte degli intellettuali la democrazia è un lavoro noioso. Significa molto, troppo lavoro. Gli intellettuali spesso non hanno voglia di farlo. La democrazia va avanti per frizione. Succhia un mucchio di tempo e di lavoro. Diventa molto noiosa. I politici hanno molta voglia di sentire gli intellettuali, ma è raro che gli intellettuali dicano qualcosa». Una considerazione anche pessimistica per chi come lui aveva saputo raccontare una vicenda davvero singolarmente identitaria di una cruciale attrazione tra il sapere e il potere in cui l’affresco storico diventa lo specchio di una palpitante attualità di vicende, pensieri, condizioni di vita, inquietanti analogie.
LA VOCAZIONE
Ricordo che Enquist, proprio nell’anno, il 2002 in cui era uscito in Italia il suo Il medico di corte, venne a presentarlo a Pescara dove aveva appena vinto insieme al poeta Adonis il premio internazionale di narrativa Flaiano. E, in quella occasione, parlò a lungo della vocazione per così dire europeista e illuminista del suo Struensee che gli sembrava molto attuale e molto da difendere, contro ogni rinata vocazione sovranista. E aggiunse che «nell’unità bisognava tutelare l’Europa policentrica delle differenze, quella mediterranea di Roma, quella baltica di Copenaghen, quella asburgica di Vienna. Il centro deve essere contemporaneamente a Stoccolma, Parigi, Madrid, Lisbona, Atene».