Huffington Post, 27 aprile 2020
Biografia di Emily Dickinson
“Ogni vita converge a qualche centro. Dichiarato o taciuto”. Una mèta di cui Emily Dickinson scrisse per se stessa e per il mondo, dall’isolamento volontario in cui scelse di vivere negli ultimi vent’anni della sua vita. Una stella polare che vale la pena seguire, nonostante le nubi portate dalle sofferenze e dagli inciampi.
Viaggiare sulle ali della parola anche se si è feriti, dunque: ecco la lezione della poetessa americana in questi giorni di emergenza. Nata nel 1830 ad Amherst, nel Massachusetts (Stati Uniti), figlia di un benestante avvocato, Emily studiò prima all’Accademia della città natale e poi presso la scuola femminile di Mount Holyoke. Nel 1848 interruppe la sua formazione e rientrò ad Amherst: lì rimase fino alla fine dei suoi giorni, nella casa paterna, fatta eccezione per alcuni brevissimi viaggi. Nel 1860, a trent’anni, ella vide trasferirsi in California il reverendo Charles Wadsworth, uno dei suoi pochi amici col quale aveva intrattenuto un’intensa corrispondenza: l’evento fu l’ennesima frattura di una storia segnata dalla perdita delle persone care. Da quel momento, l’esilio casalingo di Emily Dickinson divenne pressoché totale.
Non puoi far crescere il Ricordo
Quando ha perduto la Radice -
Consolidargli il Suolo intorno
E collocarlo eretto
Inganna forse l’Universo
Ma non recupera la Pianta... (1)
“Non c’è bisogno di essere una camera per venire infestati. Non c’è bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi che vanno oltre lo spazio materiale”, scrisse in solitudine la poetessa sempre vestita di bianco, trasformando il suo vissuto in paradigma universale. Un’esistenza vulnerabile ma in grado di riflettere su se stessa grazie alla parola, di sublimare la malinconia attraverso l’arte.
In una missiva dell’estate 1858 indirizzata a Joseph Sweetser, marito della zia paterna Catharine (Kate), Emily dipinse un universo limitato eppure denso di suggestioni.
“Molte cose sono accadute, caro Zio, dall’ultima volta che ti ho scritto, tante, che scrivendo barcollo, per il tagliente ricordo. Fioriture estive, e mesi di freddo, e giorni di campanellini tintinnanti, e sempre questa mano sul nostro focolare. Oggi è stata una giornata così serena fuori, eppure così triste dentro, il sole splendeva lietamente, ora viene furtiva la luna, eppure nessuno è contento. Non sempre riesco a vedere la luce, dimmi, per favore se brilla. Spero che tu sia stato bene, tutti questi giorni, e abbia ogni gioia. Qui v’è una ridente estate, che fa cantare gli uccelli e mette in movimento le api. Strane corolle sorgono su molti steli, e gli alberi ricevono i loro inquilini. Vorrei che tu vedessi quello che vedo io, e assorbissi questa musica. Il sole è tramontato, tanto tempo fa, e ancora un ingenuo coro continua il canto. Non so chi sia a cantare, e anche se lo sapessi, non lo direi!”. (2)
Scrivere come arma per sopravvivere al dolore. Scrivere per se stessi, senza inseguire la fama e l’approvazione altrui (che, peraltro, la poetessa americana raggiunse soltanto in maniera postuma). Scrivere per dare una dimora alle proprie emozioni e debolezze.
“Emily Dickinson è una creatura della soglia, ha scelto di abitare uno spazio e un tempo sospesi tra il presente e il futuro, non ha avuto la possibilità di entrare in vita nella Storia ma ha avuto quella di resistere là dove tutto può sempre accadere. I would prefer not to. La soglia tra due mondi, due tempi, due realtà. Una stanza che si apre, una porta che si chiude, una finestra che guarda, Emily che abita il mondo del possibile. «Io vivo nella possibilità –/ una casa più bella della prosa»”, scrive Benedetta Centovalli in Nella stanza di Emily (Mattioli 1885, 2020).
In Dickinson la parola è anche strumento per viaggiare dentro se stessi, rompendo le catene del confinamento fisico. Così, senza mai varcare i confini del suo giardino, l’autrice esplorò la poesia e vi trovò luce.
Ci abituiamo al buio
quando la luce è spenta;
dopo che la vicina ha retto il lume
che è testimone del suo addio,
per un momento ci muoviamo incerti
perché la notte ci rimane nuova,
ma poi la vista si adatta alla tenebra
e affrontiamo la strada a testa alta.
Così avviene con tenebre più vaste –
quelle notti dell’anima
in cui nessuna luna ci fa segno,
nessuna stella interiore si mostra.
Anche il più coraggioso prima brancola
un po’, talvolta urta contro un albero,
ci batte proprio la fronte;
ma, imparando a vedere,
o si altera la tenebra
o in qualche modo si abitua la vista
alla notte profonda,
e la vita cammina quasi dritta. (3)
E abituandosi a vedere anche nella notte profonda Emily Dickinson insegna, ancora oggi, a non lasciare che la piccola fonte della nostra anima venga prosciugata dalle stagioni dell’esistenza.
Nel tuo piccolo cuore hai tu un ruscello
Dove sboccino timidi fiori,
Scendano a bere timorosi uccelli,
E tremino le ombre?
Nessuno sa, tanto sommesso scorre,
Che c’è un ruscello lì –
Eppure tu ci bevi ogni giorno
La tua goccia di vita.
Allora, in marzo, veglia sul ruscello –
Quando i fiumi straripano
E la neve precipita dai colli
E spesso i ponti crollano –
Veglia anche più in là, forse in agosto,
Quando i campi si stendono bruciati –
Che un rovente meriggio non dissecchi
Il piccolo ruscello della vita! (4)
Un piccolo ruscello che esaurì il suo corso nel 1886 quando la poetessa, 56enne, venne stroncata da una malattia renale. A spezzarle definitivamente il cuore, due anni prima, l’ennesima perdita: quella del nipote prediletto Gilbert, scomparso a soli otto anni per una febbre tifoide.
Le lettere e le poesie vennero trovate circa una settimana dopo la morte di Emily, nella sua stanza, tra le sue cose. “E la mia vita è questa: allargare le mie piccole mani per accogliervi il Paradiso”, c’era scritto.
(1) Traduzione di Giuseppe Ierolli per https://www.emilydickinson.it/
(2) E. Dickinson, Lettere (Editore Bompiani), a cura di M. Guidacci
(3) E. Dickinson, Tutte le poesie (Mondadori), a cura di M. Bulgheroni
(4) E. Dickinson, Poesie (Guanda), a cura di V. Errante