La Stampa, 27 aprile 2020
Al Sarraj assediato e ostaggio delle bande
Al Sarraj, presidente di Tripoli, sarà ricordato come uno dei più straordinari equilibristi politici di questo inizio di Millennio. È accerchiato nella sua capitale; nel disordine libico zampillante di mercenari e fanatici, non dispone di un esercito ma soltanto di arroganti e tumultuose bande di miliziani specializzate più che nell’arte della guerra in traffici: dall’estorsione al contrabbando di petrolio allo scafismo dei migranti.
Ieri notte due dei principali «reggimenti» di questi agenti convulsivi di distruzione e dissoluzione si sono dati furiosamente battaglia nel centro della capitale; sospendendo la partecipazione alla battaglia, cruciale, che si combatte a Sud della città, a Tarhouma, per spezzare l’assedio del nemico, il generale Haftar. Per fortuna questi è un generale che, con gran disperazione dei suoi ombrosi padroni, Emirati Egitto Russia, applica la strategia dell’affrettiamoci lentamente: assedia Tripoli senza prenderla mai.
Insomma: apparentemente Al Sarraj non conta nulla, è come se non ci fosse. Un «has been» direbbero gli americani che, pragmatici ma maligni, amano le parole quanto i fatti. Eppure, forse per questa «allure» di vecchio professore, barba grigia, occhi nebbiosi, sorriso impacciato che lo distingue dei ceffi della maggior parte dei protagonisti della scena libica animati da eguale cinismo scientifico, continua, sornione, ad essere in piedi. Addirittura, sopravvissuto a tre governi italiani, resta il nostro interlocutore principale. Perché, per tirare una linea di demarcazione tra angeli e diavoli, qui abbiamo scelto chi ci garantisce il blocco dei migranti. E l’Italia lo rivuole protagonista in un progetto di risurrezione, davvero miracolosa, della dimenticata conferenza di riconciliazione di Berlino. Uno dei più riusciti fallimenti diplomatici della Storia.
In fondo anche la pandemia universale gli è servita. Al Sarraj ha capito da tempo che noi occidentali ci svegliamo solo a tratti, la nostra vigilanza per qualche motivo che gli deve apparire misterioso, va e viene. La nostra comprensione per questo posto di fanatici zeppi di petrolio si accende, arde per un po’, poi invariabilmente, bizzarramente letargica, si spegne. Lui approfitta delle pause, capitalizza le avanzate, nasconde le sconfitte, veleggia tra i mercenari turchi e chiacchiere italiane, tiene di riserva scafisti e migranti per i momenti più pericolosi. Lo si direbbe capace di una guerra di scartafacci e invece è un debole che non ha paura di nulla.
Ora affronta l’ennesimo salto mortale in questa mirabolante attività di amministratore del caos. Tripoli, notte tra sabato e domenica. La zona di Zawyet al Damanhi, in centro. Ci sono il ministero degli Esteri, il centro stampa e l’ambasciata d’Italia. È la Tripoli gheddafiana con lo sfarzo del lungomare, le costruzioni moderniste che piacevano alla goffa grandeur del Colonnello, un non so che di instabile, lussuoso e fittizio: come una fiera per ricchi da dove si dovrà levare le tende e da un momento all’altro. Nella geografia militare e mafiosa della capitale questo è territorio della «Brigata rivoluzionaria» che vi custodisce il quartier generale. Attenzione a non cadere in errore. Non immaginatevi la rivoluzione con ideologie, idealisti, gente che discute, rifà il mondo, reinventa l’uomo. Per carità: la brigata si occupa di appalti più terrestri e questa grande zona della città la tiene in appalto perché se l’è conquistata. È la sua busta paga, la sua banca.
Comincia sempre così: raffiche isolate poi più fitte, lo sciabordio che annuncia la tempesta. Gli esperti, e tutti gli abitanti di Tripoli lo sono diventati, distinguono nel subbuglio il fracasso dei cannoncini e delle mitragliere pesanti, quello più pericoloso. Non è dunque una baruffa, si fanno le cose in grande. Piccoli branchi oscuri di uomini si lanciano attraverso parallele, sfruttano gli angoli. È sorta la Luna, la luce bianca succhia dai palazzi ogni colore, pallida e lucente. Da una settimana è il ramadan, si combatte di notte con teologica obbedienza. La gente è sveglia, in fretta spegne le luci. Quelli dei quartieri lontani, rassicurati, tornano alle loro faccende. Gli altri si tengono lontano dalle finestre, sperando che sia breve.
L’altra notte non è stato così: un’altra sezione dell’esercito di Al Sarraj ha deciso di regolare i conti con la Brigata rivoluzionaria. Sono i miliziani della Forza di deterrenza speciale, nome inquietante, perfino un po’ metafisico. Niente paura: riassumendo è la copia dei sedicenti «rivoluzionari». Perché si combatte? Mistero. Controllo del territorio, sgarbo tra capi e sottocapi, denaro. O vogliono per loro un’altra parte della città.
Questa è la vera guerra libica, quella che conta, nessuno la racconta perché le risse tra mercenari non hanno epopea, non si contano nemmeno i morti. A che serve? Non ci sono eroi. Domani ai posti di blocco in questa zona forse ci saranno altre facce ma con le stesse divise approssimative, la stessa arroganza. E si capirà chi ha vinto. Se stanotte la battaglia non si riaccende, vuol dire che Al Sarraj ancora una volta è sopravvissuto: distribuendo denaro ha placato, per un po’, questi pretoriani violenti e di una avidità infinita.
Al fronte, contro Haftar, intanto combattono i mercenari siriani, grinte da facciamola finita jihadista. Una voce assicura che un reggimento, duecento combattenti, incassati i petrodollari dell’ingaggio, ha disdetto il contratto. Difficile verificare ma si aggiunge che così hanno pagato gli scafisti per il viaggio verso l’Europa. A Berlino, chissà, bisognerà parlarne a Sarraj.