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 2020  aprile 27 Lunedì calendario

I rischi dei processi targati Microsoft

“L’imputato che rischia la galera diventa un francobollo sul monitor: è umana la condanna via Skype?”. Se lo chiede il giudice della prima sezione penale del tribunale di Roma, Valerio de Gioia. Lui ha già saggiato il processo a distanza: il 30 marzo ha condannato 2 spacciatori colti in flagranza, con rito abbreviato, guardandoli sullo schermo del pc: “La tecnologia può deresponsabilizzare perché manca il contatto – dice la toga –. In aula l’imputato può urlare la sua innocenza, ma col filtro del computer cambia tutto”.
Fino al 30 giugno, infatti, la giustizia (civile, penale) si può celebrare a distanza: l’ha stabilito il Decreto legge “Cura Italia” del 17 marzo, articolo 83, per salvare i diritti limitando i contagi. Il provvedimento detta i principi generali. Ma le procedure sono descritte dai protocolli condivisi da avvocati (Consiglio nazionale forense), magistrati (Consiglio superiore della magistratura) e il ministero della Giustizia. Così, il processo trasloca su Skype e Teams, piattaforme targate Microsoft: a scegliere i software di Bill Gates, per celebrare le udienze, è il ministero della Giustizia (Direzione generale sistemi informativi automatizzati). L’Unione delle camere penali è sulle barricate: senza la presenza in aula, la difesa sarebbe monca e la privacy lesa, con Microsoft. “Temi degni di massima attenzione”, scrive il Garante della riservatezza Antonello Soro, il 17 aprile, in una lettera per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La missiva cita una legge Usa, il “Cloud Act (che come noto attribuisce alle autorità statunitensi di contrasto un ampio potere acquisitivo di dati e informazioni)”. A via Arenula dicono: i software sono sicuri perché certificati dall’Agenzia per l’Italia digitale, il processo online funziona bene. Per capire meglio, torniamo al 30 marzo con il giudice de Gioia.
L’aula virtuale. “Per decidere il destino dei due arrestati, in sala ero col cancelliere e il tecnico del collegamento audio-video”. Le avvocatesse partecipavano dal loro studio, il pm da un ufficio separato, gli arrestati da una stanza della questura: tutti col pc, connessi con Teams. “Ho interrogato l’arrestato, l’avvocato ha fatto le sue domande, a volte il segnale rallentava ma è filato tutto liscio”. Sì, al netto dei problemi tecnici: “La questura, dove c’erano gli spacciatori, s’è collegata alle 12,30, con due ore di ritardo”, dice la toga. Alla prima udienza ha assistito l’avvocatessa del secondo arrestato. “‘Resta collegata’, le abbiamo detto, ‘perché se perdiamo la connessione sono guai’”, racconta de Gioia. I legali si sono confrontati via telefono coi loro assistiti, in privato: “In quel momento il tecnico in aula ha spento l’audio per mantenere il segreto”, dice il giudice. Gli avvocati però hanno sempre il diritto di stare a fianco degli assistiti, ovunque siano, in carcere o negli uffici di Pubblica sicurezza. Ma la distanza (anche dai clienti) li rassicura dal contagio: “Nella saletta della questura c’erano i due detenuti con due agenti, tutti a 2 metri e con mascherina – dice la toga –, però la scelta degli avvocati di partecipare dal loro studio è comprensibile”.
La procedura. Almeno una settimana prima il giudice convoca l’udienza via mail (Pec, posta certificata), indicando il giorno e l’orario. La mattina stessa arriva il link per accedere all’aula virtuale. Se qualcuno diserta, stesse sanzioni del processo tradizionale. In caso di problema tecnico, c’è un numero verde del ministero della Giustizia. Bandita la registrazione dell’udienza. Vietato collegarsi online con altre persone o ospitarle nel luogo del collegamento. Qui sorge un problema: l’avvocato può scegliere di stare vicino al suo assistito oppure, durante le indagini, di partecipare dal suo studio. Ma in tal caso, “il giudice non può verificare che non siano presenti soggetti esterni al procedimento”: è scritto nel protocollo condiviso da avvocati, magistrati e ministero. L’unica tutela è l’autodichiarazione del difensore. Fin qui, le regole valide per l’udienza civile e penale. Nel secondo caso, quando ci sono testimoni il dibattimento torna sempre in aula. Altrimenti, ci sono i detenuti da collegare in video.
In arresto, online. Se l’imputato (o indagato) è in carcere, il collegamento non sarà con Skype o Teams: meglio i sistemi di videoconferenza già collaudati per i condannati al 41 bis o i collaboratori di giustizia (i pentiti) sottoposti a misure speciali di protezione. Sono i 2 casi in cui la procedura da remoto è già consentita dalla legge (il terzo riguarda i detenuti all’estero). Se l’arrestato invece è a casa sua (ai domiciliari) il protocollo consiglia di portarlo in questura, per il collegamento online. In ogni caso, con lui ci sarà un funzionario indicato dal giudice o un agente di Pubblica sicurezza, per garantire i diritti della difesa e offrire assistenza tecnica. La distinzione: nel processo l’avvocato è sempre vicino al suo assistito, nessun obbligo durante le indagini.
L’udienza “via mail”. Nel civile non ci sono persone in arresto e le carte scritte, talvolta, contano come (o più) del confronto orale. Perciò, se è richiesta solo la presenza degli avvocati (senza le parti) il giudice può disporre l’udienza mediante “trattazione scritta”: niente videoconferenza, basta che gli avvocati depositino per via telematica i documenti con istanze e conclusioni. Nell’udienza civile è una possibilità, ma l’abolizione del dibattimento a voce sarà la regola fino al 30 giugno per la giustizia amministrativa (Tar e Consiglio di Stato). Lo prevede l’art. 84 del Cura Italia: tutte le controversie “passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati”. Il Consiglio di Stato però ha bocciato la soluzione di un contradditorio solo scritto, imposto contro la volontà delle parti: “Non appare compatibile con i canoni dell’interpretazione conforme a Costituzione (…) potrebbe rilevarsi un ostacolo significativo per il ricorrente”, è scritto nell’ordinanza n. 2539 del 21 aprile. Luigi Angeletti, avvocato dello studio torinese Ambrosio & Commodo, è d’accordo: “Nelle cause più complesse solo il confronto diretto tra avvocati e magistrati può far emergere elementi decisivi per la pronuncia, gli scritti difensivi talora non bastano”.
Post-emergenza. I penalisti temono che il processo online diventi la norma. Alcuni magistrati e avvocati, del resto, vorrebbero conservare la via telematica (in casi specifici) anche dopo la pandemia. Il presidente Anm, Luca Poniz, apre: “Il dibattimento penale tornerà in aula, ma la stagione emergenziale potrebbe lasciare in eredità soluzioni, in certi casi, più efficienti. Ad esempio: la possibilità per il Gip di interrogare un arrestato a distanza; fascicoli digitali consultabili da tutti i magistrati; avere depositi di atti online”. Raoul Chiesa, tra i più noti esperti di sicurezza informatica, è perplesso per la scelta delle piattaforme: “Skype e Teams non sono sicure: ci sono state, ci sono e ci saranno vulnerabilità: così regaliamo i nostri dati a multinazionali estere”. Chiesa domanda: “Perché non utilizziamo un software italiano? C’è la piattaforma, libera e gratuita, realizzata dal gruppo informaticoiorestoacasa.work, utilizzata anche del Garr”. È il consorzio che fornisce la dorsale internet al Cnr e alle università italiane. Un’idea anche per la scuola a distanza.