la Repubblica, 27 aprile 2020
Nell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo
Le orme della bestia incominciano a sbiadire. Si diradano il grugnito e il rumore dei passi. Il frastuono dei ventilatori polmonari, il cigolio dei carrelli, il suono delle apparecchiature elettroniche che garantiscono la sopravvivenza a quei corpi supini che chiedono la grazia ai caschi trasparenti. Nei corridoi le strisce adesive rosse usate per delimitare le “zone sporche” in tempo di guerra – lo chiamano così –, vengono tolte da terra, questo plasticamente è un buonissimo segno. Anche perché quello stesso scotch adesso viene usato per bannare gli ingressi nelle zone ripulite.
Le aree Covid-free. Incredibile ma vero: fino a pochi giorni fa, quando la trincea era avvolta nel buio e a Bergamo la falce del coronavirus strappava vite come spighe di grano, parevano un miraggio. Ora finalmente gli spazi liberati dall’assedio del virus dei polmoni, li vedi.
Fa un certo effetto assistere alle operazioni di smantellamento del fronte: gli strumenti della guerra. Letti, materassi, i cartoni con la scritta “sensori di flusso”, altri con dentro pacchi di camici di plastica blu, altri ancora contenenti lenzuola e cuscini, e poi piantane, aste-flebo, misuratori, scafandri. Gli addetti ai trasporti pesanti, che indossano tute arancioni, li portano via insieme al resto. «Siamo fuori dal tunnel», dice Luca Lorini, primario di Terapia intensiva. La leggerezza della citazione cantautoriale rende lo stato d’animo. «Vietato abbassare la guardia», ammonisce. Ma la bella notizia è che da oggi, due mesi e sei giorni dopo il primo ricoverato per coronavirus, l’ospedale Papa Giovanni XXIII, che della lotta all’epidemia lombarda è stato la linea del fuoco, inizia a tornare a uno stato di simil-normalità.
La seconda riconversione la racconta Lorini. «Prima eravamo un ospedale trasformato in ospedale Covid che aveva mantenuto solo una piccola parte per le altre patologie. Adesso la piccola parte, diciamo il puntino, è quella riservata ai pazienti Covid». Pochi no: duecento. Forse 180 stasera, perché «in media ne dimettiamo 20 al giorno». Ma qui sono arrivati ad averne oltre 500. Erano i giorni dell’ecatombe, delle colonne di bare trasportate sui camion militari, dei forni crematori al collasso. La Wuhan italiana era in ginocchio e il suo ospedale, un bestione moderno racchiuso dentro sette torri e con gli spazi dei mega-nosocomi americani, aveva il fiato al limite delle sue possibilità. I numeri parlano. Al Papa Giovanni la mortalità è sempre stata di 2-3 decessi al giorno (1.100 l’anno). Nella fase acuta del Covid è schizzata a 19. Da dieci giorni la media è scesa a due 2,5 morti al giorno. Morti per coronavirus, ovviamente.
Paola Sonzogni è la faccia dell’ospedale entrato nella fase 2. Infermiera. Il suo settore E1 il 13 marzo viene convertito in terapia intensiva Covid. Prima accoglieva pazienti colpiti da ictus. «Sta venendo fuori tutta la tensione», si commuove. Mentre parla smantellano il reparto: non ci sono più pazienti intensivi. Si torna alla vita di prima, anche un po’ alla vita. «Per due mesi non sapevo più che cosa fosse il lavoro e cosa non lo era. Ieri abbiamo dimesso gli ultimi quattro pazienti. Ora siamo di nuovo sub-intensivi. Vedo la luce». Il reparto di Paola è uno di quelli “puliti”. Da tempo di pace. «Tutto il settore è stato passato con il perossido, sembra la fine di un incubo». Quaranta tra medici e infermieri, «abbiamo fatto qualcosa di simile a un miracolo», dice un collega in pausa caffè. A trenta passi c’è la terapia intensiva pediatrica. Anche qui è iniziato il dopo. Il dottor Ezio Buonanomi sta staccando dopo il turno di notte. «Abbiamo ancora otto adulti, e poi otto bambini. Il coronavirus aveva ridisegnato anche quest’area». Parla di disegni e l’occhio cade a terra: ci sono le impronte colorate che indicano il percorso ai genitori in visita. Prima c’erano le strisce adesive rosse: via, basta. I luoghi ancora riservati al mostro, o dove il mostro è transitato, si riducono. «Ho sedici pazienti, ma va molto meglio», dice Paolo Gritti, anche lui terapia intensiva. «Passato il peggio apprezzeremo il ritorno al meno peggio, ma stiamo attenti perché non è finita».
Dalla torre uno si scende al piano terra, al pronto soccorso. Il primo sportello per chi non riusciva più a respirare. Non si vedono più le barelle con le bombole di ossigeno. Le file di pazienti in pietosa attesa o già ricoverati si sono finalmente dissolte e le scene simbolo dello tsunami – con il reparto affollato di malati, lo sfinimento di medici e infermieri su e giù per le corsie a fronteggiare l’onda di piena, il flusso continuo delle ambulanze in coda all’ingresso – sembrano un incubo lasciato alle spalle. «Adesso c’è l’effetto coda: pazienti con altre patologie che prima avevano paura a venire qui e adesso invece vengono», spiega la direttrice, Renata Colombi. «Se mi arriva uno che mi dice “ho male al piede da qualche giorno” vorrei tanto mandarlo a quel paese. Ma non posso. Qui eravamo arrivati anche a 80 pazienti Covid al giorno. Adesso sono due massimo tre al giorno». I vivi hanno vinto sui morti. Luca Lorini tira il fiato: «Prima per invitare la gente a fermare il contagio avevo lanciato l’hashtag #nessunoincontrinessuno. Ora ne lancio un altro: #qualcunoincontriqualcuno».