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 2020  aprile 27 Lunedì calendario

Petrolio, l’algoritmo affonda il mercato

Quando un prezzo diventa «negativo», e soprattutto quando impazzisce tra alti e bassi con grande ampiezza e velocità, è assai probabile che qualche incauto investitore ci lasci le penne. La volatilità è la madre di tutte le speculazioni. È accaduto la settimana scorsa al petrolio, che nella versione a stelle e strisce Wti è sceso in pochi minuti da 20 dollari al barile fino a meno 40. È accaduto al più grande fondo Etf sul greggio, lo Us Oil Fund (vale un quarto del mercato futures Usa), che fino a giovedì scorso registrava un crollo del 39%, e del 76% da inizio anno. Solo la settimana precedente i risparmiatori americani – che pensavano di fare buoni affari scommettendo su un rialzo del petrolio dopo gli accordi Opec+, così ben cavalcati dalla propaganda del presidente Trump – avevano iniettato nel fondo (che replica mese su mese l’andamento del barile) 1,6 miliardi di dollari. Una manna per i tanti hedge fund e traders di banche d’affari che hanno continuato a scommettere «contro» le sue mosse. Un disastro per lo Us Oil Fund e i suoi 3,8 miliardi di raccolta globale. È corso ai ripari ma, ad oggi, senza risultati di rilievo.
Solo imprevisti del mercato? Forse. Ma non tutti la pensano così. Per Salvatore Carollo, ad esempio, la risposta è decisamente no. Trader con lunga esperienza all’Eni e analista di mercato (ha scritto «Understanding oil prices» e di recente una raccolta dei suoi articoli sulla Staffetta Petrolifera, «Il petrolio nell’era del post petrolio) ha sostenuto proprio sulla Staffetta: «Quando si crea un sistema folle, anche se ha garantito una certa funzionalità per qualche decennio, ci si deve aspettare che il tutto possa impazzire». La follia attuale sarebbe il risultato ultimo del lungo processo storico che ha condotto il mercato del petrolio mondiale a sganciarsi dal petrolio fisico per approdare in un mondo astratto del tutto finanziario. Dove i barili di petrolio diventano barili di carta, anzi «figurine Panini», come li ha definiti in passato lo stesso Carollo e di recente un altro esperto di greggio e dintorni come Massimo Nicolazzi. Dove la figurina di Pizzaballa, introvabile portiere dell’Atalanta, può diventare preziosissima e più pregiata di Rivera, malgrado doti tecnico-sportive modeste. Tutto questo perché il prezzo del petrolio viene fissato ogni giorno non sulla base di domanda-offerta della materia prima «fisica» – verdognola e un po’ puzzolente – e del breakeven dei suoi giacimenti, ma di un algoritmo costituito dalla somma algebrica di un future con un derivato. Proprio così: al prezzo del contratto «future» del mese successivo si aggiunge il prezzo del contratto «per differenza», ovvero della differenza tra la stima del valore odierno e la stima del valore tra un mese. 
Difficile da mandare giù, ma tant’è, questo è il mercato e la formula è in vigore da quando Arabia Saudita e Iran decisero di sganciare l’Opec dalla rilevazione delle diverse qualità di greggio del mare del Nord e di introdurre invece il «Brent finanziario», quello quotato all’Ice, International exchange, una delle più grandi Borse mondiali per futures e commodity. Un luogo iperuranio dove però nei momenti del picco da 9 a 147 dollari (estate 2008) e poi di nuovo giù a 37 dollari si scambiavano contratti per circa 2 trilioni di dollari al giorno. E dove sono all’opera le filiali finanziarie dedicate al trading di grandi banche internazionali, grandi compagnie e addirittura Stati. Molto spesso, in passato, con sedi nei paradisi fiscali del pianeta fuori dalle regole Ocse. «Non c’era e non c’è al mondo un’autorità in grado di mettere ordine in questo sistema di potere», scrive Carollo. 
Ogni contratto sottoscritto vale mille barili di petrolio e quando si tratta di Brent non accade mai che si trasformi in un barile fisico. Diversamente da quanto accade invece per il Wti, un mercato molto più regionale (anche se la regione è costituita da Usa e Canada) dove alla scadenza del contratto acquistato sul Nymex i barili vengono effettivamente consegnati a Cushing, in Oklahoma. Un luogo molto reale ma anch’esso a suo modo metafisico: punto di arrivo e partenza di sei oleodotti, una distesa di cisterne e impianti di stoccaggio che può ospitare 76 milioni di barili.
Ciò che è accaduto nei giorni scorsi è che «l’algoritmo è impazzito», spiega Carollo. Spinti dalla prospettiva di guadagnare su un possibile rialzo futuro del greggio, nelle scorse settimane una miriade di piccoli investitori si è precipitata a scommettere sui contratti «per differenza», in gergo Cfd. «Di rado il Cfd supera qualche decina di centesimi di dollaro mentre questa volta ha toccato livelli insoliti, diventando addirittura maggiore del valore del contratto future». La somma algebrica tra i due contratti, insomma, è così diventata negativa. In un primo momento di pochi dollari, ma il segnale è arrivato forte e chiaro. «Quando un contratto va a zero non ha validità giuridica, e quindi chi li possedeva li ha denunciati. Tutte le produzioni sono arrivate a Cushing e lì si sono accumulate. La prospettiva dell’impossibilità di ulteriori stoccaggi ha scatenato il panico e il prezzo è arrivato fino a meno 40 dollari», spiega Carollo. Insomma, la combinazione tra follia dell’algoritmo e panico sugli stoccaggi ha causato il disastro. «Un incidente momentaneo, il giorno dopo il prezzo era già risalito, e le controparti hanno ricominciato a chiudere i contratti a livelli ragionevoli. Ma di certo qualcuno si è fatto male», dice Carollo. Che commenta: «Il prezzo del petrolio è una variabile fondamentale dell’economia mondiale. Non dovrebbe essere lasciata a questi giochini». Difficile dargli torto. Forse impossibile dargli seguito.