Corriere della Sera, 27 aprile 2020
La quarantena di Maurizio De Giovanni
Lo scrittore Maurizio de Giovanni, due milioni di copie vendute solo in Italia, traduzioni in più di trenta Paesi, molte con le serie sul Commissario Ricciardi o sull’Ispettore Lojacono e I bastardi di Pizzofalcone, ha sempre detto che, per scrivere un romanzo, gli basta un mese. In quasi due mesi di quarantena, però, non ha scritto.
«Questo è il tempo della lettura – dice – ho letto i molti libri che avevo in attesa: l’ultimo di Carlo Lucarelli, l’ultimo di Roberto Costantini, e uno bellissimo che è La gioia fa parecchio rumore di Sandro Bonvissuto». Il suo nuovo romanzo, Una lettera per Sara, doveva uscire per Rizzoli a fine marzo, ma de Giovanni ha scelto di rimandarlo al 19 maggio e di non pubblicare solo l’ebook, perché le librerie vivono di bestseller sicuri come i suoi, con i lettori che entrano per comprare un titolo ed escono avendone presi tre.
Lei vive a Napoli: le mancano le passeggiate di cui il vostro governatore è il più fiero oppositore?
«Vincenzo De Luca, di cui non sono grande fan, sta dimostrando che, per apprezzare correttamente un cappotto, serve l’inverno: ha capito che noi napoletani tendiamo a estremizzare le condizioni, per cui, con un’apertura sulla passeggiata, sconfineremmo subito tutti in tutte le strade».
La foto della ressa per la spesa nei vicoli ne è la prova.
«Napoli è stretta, è un dedalo: alla Pignasecca, dieci persone che fanno la spesa sembrano una folla. I napoletani si stanno comportando bene e lo dimostrano gli zero contagi e zero decessi di lunedì, in un’area metropolitana di oltre tre milioni di persone. Trovo inaccettabile invece giornali e tv che alimentano la divisione Sud-Nord. Mi creda: qui c’è una profonda partecipazione affettiva verso le popolazioni più colpite».
Non è De Luca che invoca i confini chiusi se la Lombardia riapre?
«Il contrasto fra governatori è orribile, ma la riapertura affrettata di regioni che hanno ancora tanti contagi mette in difficoltà tutta Italia. E comunque noi vogliamo riaprire per lavorare e non, come ha detto qualcuno, per suonare il mandolino».
Lei da quando non esce di casa?
«Fra me e mia moglie, c’è la disputa per chi fa la spesa. Ogni tanto vinco io. Solo che esco di casa contento e torno con una forte malinconia».
Cosa le mette malinconia?
«La città sembra abbandonata, non sospesa o momentaneamente interrotta: i manifesti dei teatri indicano prime in un domani mai arrivato, dalle vetrine dei bar s’intravedono tavolini accatastati in fretta e furia in una notte. Non vedo gente ai balconi, non sento voci dall’interno. Pare che una popolazione intera sia sparita ed è triste in una città che era folla rumorosa, assenza di privacy. Ogni volta rientro a casa con un senso di nostalgia».
E come vince la nostalgia?
«Mi metto sul balcone e guardo la città dall’alto. Abito al Vomero e da lì vedo tutto, anche il porto, il Vesuvio e Sorrento. Non sento il rumore, ma vedo ancora colore e, dall’alto, vedo ancora che Napoli c’è ed è una città necessaria, perché non poteva stare più in là, è proprio un luogo che la natura ha previsto per accogliere gli esseri umani».
Ha ansie da contagio?
«Esco con guanti e mascherine, lavo le mani, ma non sono ossessivo. Sento, piuttosto, una enorme angoscia sociale. In Campania, turismo, cultura, enogastronomia hanno avuto un decennio da tutto esaurito e ora usciranno da questa crisi con le ossa rotte».
I figli sono con lei?
«Il minore, che ha 28 anni ed è medico, ha avuto un incidente in moto il 20 febbraio, si è rotto delle costole, stava facendo la convalescenza con noi, per cui è rimasto. Per un padre, in questo momento, è rassicurante avere i figli vicino. Con l’altro, che ha 31 anni, ed è ingegnere aerospaziale, poter comunicare con le nuove tecnologie abbatte di molto paura, dubbi, inquietudini».
Lei è fra chi pensa che ne usciremo migliori?
«Penso che torneremo a dare valore a cose a cui davamo un’importanza marginale: un caffè preso con un amico al Gambrinus, incontrarsi e darsi un bacio».
Cosa le manca di più, ora?
«Una pizza sul lungomare. Vorrei essere più poetico e dire l’aria, il mare, uno spettacolo musicale. Mi mancano, ma uscire per una pizza è il sapore della libertà».
Chi sente di più, a parte i familiari ?
«I giornali per cui scrivo e amici con cui porto avanti progetti. Con Alessandro Gassmann ne abbiamo di bellissimi per teatro, tv e cinema».
Cucina?
«Sto dall’altro lato della catena alimentare: sono uno che mangia. Specie in tempi di quarantena, servono anche quelli».
Come ha festeggiato i suoi 62 anni, il 31 marzo?
«Non festeggiando. Il festeggiamento, se non è collettivo, non ha senso. L’importanza degli altri nella nostra vita la stiamo vedendo adesso. Solo ora vediamo quanto contano gli altri, i libri e i viaggi con la fantasia».
I tempi da pandemia sono adatti ai suoi romanzi?
«Non ho alcuna voglia di raccontarli. I romanzi narrano la deviazione della normalità, non l’anormalità e questa situazione è troppo irreale».