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 2020  aprile 26 Domenica calendario

L’uomo che sussurra alle renne

L’uomo che sussurra al silenzio ha capelli lunghi, aria fiera, occhi sottili e un’aura da uomo primordiale. Il suo nome è Sacha. Vive da solo nella taiga più profonda, perso in una vertigine bianca, in un nowhere fatto di una tenda e tre isbe in legno. Alleva renne.
Alexis Pazoumian, fotografo franco-armeno di 32 anni, lo ha incontrato in un viaggio alla fine del mondo. Il richiamo della foresta lo porta da Parigi in Yakutia, Siberia estrema, perché dai suoi giorni bambini arrivano mitici racconti di distese bianche e samovar fumanti: il nonno, il pittore Richard Jeranian, è stato uno dei primi artisti della sua generazione a raggiungere Mosca nel 1957 e a esporre a Novosibirsk, in Siberia nel 1980. Poi, a fine anni 80, parte della sua famiglia dall’Armenia, distrutta dal terremoto, emigra in Yakutia. Pazoumian, che ha alle spalle lavori di indagine fotografica sulle minoranze del mondo, sente la necessità di capire da dove viene. Vuole andare a scoprire quel mondo per trovare un po’ di sé e organizza il viaggio, lanciando un crowdfunding da 8mila euro con cui ha realizzato anche il bellissimo volume Sacha, con foto di un tempo sospeso e un diario fra meraviglia e contemplazione.
La Yakutia, un milione di abitanti e 20mila renne, è un mare bianco nella Siberia nord-orientale con temperature fino a -60°C, è grande dieci volte l’Italia e rappresenta un sesto della superficie della Federazione Russa. È una terra ricca: oro, petrolio, carbone e soprattutto diamanti, di cui è la prima produttrice al mondo con un quarto delle estrazioni globali. Così ricca perché, sostengono gli Yakuti «quando Dio ha sorvolato la Yakutia un giorno d’inverno, le sue mani si sono congelate e ha lasciato cadere tutti i suoi tesori».
La prima tappa del viaggio è Yakutsk, capitale da 300mila abitanti, costruita sul permafrost e attraversata dal fiume Lena, 4.400 chilometri dal Lago Baikal al Mar Artico. Quando arriva, a marzo 2017, Pazoumian è accolto da una temperatura di -42°C (ma si era attrezzato con l’abbigliamento degli addetti alle celle frigorifere) e da una manifestazione con le bandiere del partito comunista perché, a queste latitudini, la caduta dell’Urss ha causato degrado materiale privando la gente di sicurezze già prima relative. Cinque ore di luce, il trasporto pubblico che funziona, chi va al lavoro, chi a scuola. In giro, visto il freddo, nessun senzatetto o ubriacone. Per qualche settimana Pazoumian insegna francese al liceo ma non si ferma, anche se sa che di lì a poco si sarebbe svolta la corsa delle slitte trainate da renne con allevatori in arrivo da ogni dove.
La sua meta sono gli Eveni, una delle oltre trenta etnie della Siberia. Vivono allevando le renne, il maiale del grande Nord di cui non si butta via nulla. Finalmente trova chi lo accoglierà. La sua Odissea bianca lo porta verso est: mille chilometri e due giorni di camion lungo la «strada delle ossa», la R504, costruita nel 1932 dai prigionieri dei gulag. Poi, altri cento chilometri in motoslitta dal villaggio di Ushugei all’accampamento di Sacha.
Il freddo sfrigola lungo le vie respiratorie, anche se è già primavera. Fotografare è un precario equilibrio fra il congelamento delle mani e l’apparecchio fotografico stordito dagli sbalzi di temperatura. Il fotografo ricorda così il primo incontro con Sacha, il re della taiga: «Senza dire una parola, Sacha posava fieramente davanti alla macchina come se i ruoli fossero invertiti. Aveva un aspetto da uomo primordiale, così familiare e allo stesso tempo così lontano da me».
Sacha, un’età indefinita scavata dal freddo, vive allevando un migliaio di renne. La sua quotidianità, che Pazoumian ha condiviso per tre mesi (marzo-aprile 2017 e febbraio 2018), è scandita dalla poca luce e dalle tante faccende. Le renne da far pascolare, la pesca sotto i laghi congelati, la legna da raccogliere, la lettura di vecchi giornali, e, dopo cena, la radio d’epoca sovietica con la quale collegarsi al mondo.
Prendere esempio dai monaci e da Robinson Crusoe: bisogna organizzare il tempo per domarlo (lo abbiamo imparato in tempo di Covid-19). Sylvain Tesson, viaggiatore estremo, lo ha raccontato con profondità nel suo Nelle foreste siberiane (Sellerio, 2012), diario di sei mesi solitari in una isba con 80 libri, qualche sigaro cubano e la propria anima. Anche Sacha è solo e libero, interroga la natura, il silenzio, il ghiaccio che si scioglie. Parla agli alberi, alla terra, alle piante, sa che gli spiriti lo seguono e lo scaldano perché il suo animo è purificato dalla solitudine, e lo salva. Sa che ogni giorno è una lotta: «Mi ha conquistato – scrive Alexis nel diario – la battaglia costante con la natura e con se stessi per sopravvivere». Uomini e natura sono sottomessi alle stesse regole perché, lo dice Dersu Uzala nel film di Akira Kurosawa, «L’uomo non è in grado di competere con la grandezza della natura».
In questa immensità Pazoumian trova la ragione ultima del suo viaggiare. Era su una vetta con Sacha alla ricerca di alcune renne allontanatesi dal gregge: «Dalla cima, la vista è splendida, mi cade una lacrima. Capisco quanto siamo isolati dal mondo, persi in migliaia di chilometri quadrati. Davanti a me una distesa grande quanto la Francia, senza anima viva. Questa impressione di piccolezza mi umilia, e resto accanto a Sacha perché questo vuoto fa venire i brividi. Comincio a fare foto, cambiare pellicole, scattare e non sento più le dita».
Perché in Siberia l’inverno dura dodici mesi, ma il surriscaldamento globale si fa sentire. I cambiamenti climatici non sono percepiti da coloro che hanno fatto di tutto per sottomettere la natura ma da chi si è sforzato, come Sacha, di vivere in armonia con essa: «Siamo padroni del nostro territorio ma – ammonisce l’eremita della taiga – non possiamo controllare la natura, che riprende sempre i suoi diritti». Chissà che non l’abbiamo imparato anche noi da queste crude settimane di pandemia. Prima che la lastra di ghiaccio della vita si spezzi sotto il peso della nostra insipienza.