Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2020
Quei neuroni silenziosi sotto la mascherina
Assieme ai vantaggi per contrastare l’epidemia, l’uso delle mascherine pone qualche problema: ad esempio, impedisce di leggere il labiale. Si è cercato di porvi rimedio producendo mascherine trasparenti nella regione della bocca, che possano essere usate, seppure per tempi limitati, per facilitare la comunicazione con le persone sorde. Tuttavia anche alle persone udenti la presenza di questi occhi privi del resto del volto sembra causare un certo disagio. Ne ha parlato lo scrittore Sandro Veronesi su «Il Foglio»: «Sembrerebbe una cosa bella, tutti questi occhi senza volto, soprattutto perché, stranamente, senza il volto intorno questi occhi sono tutti belli: e invece non lo è, perché è il simbolo della morte bianca, della malattia, del contagio.»
L’aspetto simbolico è certamente importante, basti pensare alla connotazione sinistra della maschera dei medici della peste. Però storia e cultura non colgono tutti gli aspetti del disagio. Così come non lo spiegano le difficoltà a percepire le più di settemila espressioni che i muscoli facciali possono convogliare: un volto cui manchi la parte inferiore inquieta rispetto a uno completo anche quando siano entrambi perfettamente immobili.
Di solito il fatto che porzioni del corpo delle persone siano occultate alla vista non ci disturba granché. Si tratta di un’eventualità tutt’altro che rara, perché gli oggetti, in gran parte, non sono trasparenti, ma opachi. Così per ogni particolare punto di vista accade che di solito le persone non siano visibili per intero, bensì occluse da altri oggetti. Il nostro cervello però provvede a completarne la percezione così che, ad esempio, una persona seduta dietro una scrivania non ci appare amputata a metà del suo torso, ma sembra continuare e completarsi dietro la scrivania che l’occlude parzialmente. Come mai nel caso dei volti coperti da una mascherina permane un senso di vaga inquietudine, come se al proseguire percettivo del volto dietro la stoffa mancasse comunque qualcosa di essenziale? Un capitolo della storia recente delle neuroscienze può aiutarci a capire.
Siamo a metà degli anni ’60 e nel laboratorio del professor Charles Gross, al Dipartimento di Psicologia dell’Università di Princeton, si sta registrando l’attività elettrica di singoli neuroni nella corteccia di una scimmia. Pochi anni prima, a Harvard, David Hubel e Torsten Wiesel hanno trovato neuroni nella corteccia visiva dei gatti che mostrano una risposta selettiva a stimoli quali una barretta orientata secondo un particolare angolo o che si muova in una particolare direzione. I due scienziati riceveranno il premio Nobel per queste scoperte (importantissime, tra l’altro, per il trattamento dell’ambliopia). Ma Gross sta esplorando una terra incognita, il territorio della corteccia temporale nella sua porzione inferiore, che dentro la scatola cranica si trova grossomodo nella zona che sta tra la tempia (da cui l’appellativo temporale), l’orecchio e l’area immediatamente successiva. I neuroni hanno una frequenza di scarica cosiddetta spontanea, di base, e quando l’organismo osserva qualcosa d’importante possono eccitarsi, mostrando un’intensa attività elettrica in risposta allo specifico stimolo. Ma nel laboratorio di Gross i neuroni della corteccia inferotemporale appaiono essere assai poco responsivi, gli stimoli usati da Hubel e Wiesel non sembrano scuoterli dal torpore dell’attività spontanea. Nella routine del laboratorio qualcuno rimuove lo stimolo per sostituirlo con un altro, e così facendo la sua mano passa davanti agli occhi dell’animale. Ed ecco che dall’altoparlante esce un crepitio sontuoso. Stupefatti, gli scienziati riprovano, e poi ancora… Sì, la cellula sembra rispondere in modo selettivo alla vista di una mano, umana o di scimmia. E, di lì a poco, i ricercatori osserveranno che lo stesso accade quando si presenti all’animale l’immagine di un volto, umano o scimmiesco che sia.
L’idea che potessero esistere neuroni «gnostici» era stata ipotizzata dal fisiologo Jerzy Konorski, e prima ancora da William James che concepì cellule nervose di alto livello gerarchico che chiamò «pontificali». Oggi sono meglio note come «cellule della nonna». La locuzione fu introdotta dal neurofisiologo Jeremy Letvin in una storiella inventata per farsi beffe dell’idea che concetti complessi potessero essere rappresentati dall’attività di un singolo neurone. Protagonisti della storiella sono il brillante neurochirurgo russo Akakhievic e un giovane ossessionato dalla figura materna, Alexander Portnoy – un’allusione al protagonista del Lamento (il romanzo di Philip Roth) – che si è rivolto al medico per un aiuto. Akakhievic individua e asporta dal cervello di Portnoy i neuroni che rispondono unicamente a una madre, in qualunque modo rappresentata, animata o immobile, vista di fronte o di schiena, a testa in giù o in diagonale, attraverso una caricatura o una fotografia. Come risultato Portnoy si trova a non avere più alcuna madre. Forte del suo successo, Akakhievitch si mette alla ricerca anche dei neuroni della nonna…
Charles Gross ha sempre sottolineato che i neuroni da lui scovati che rispondono alle mani e alle facce non sono in realtà cellule della nonna. Molte di queste cellule sono responsive a un insieme strutturato di caratteristiche. Per esempio le cellule della faccia includono un contorno tondeggiante al cui interno stanno in alto due macchie ad alto contrasto collocate in orizzontale (gli occhi) e in basso una terza macchia più elongata (la bocca). È impressionate vedere (anzi, meglio, udire da un altoparlante) come la scarica del neurone si zittisca quando anche una sola di queste caratteristiche venga meno: per esempio quando la bocca non ci sia più, oppure quando il contorno o gli occhi siano cancellati. Per il neurone quelli non sono più dei volti.
Le faccine schematiche (i cui elementi strutturali non a caso sono usati per gli emoticon) corrispondono a ciò che gli etologi considerano un «superstimolo», e la selettività della risposta a questo genere di configurazioni sembra predisposta nei nostri cervelli. L’anno scorso nel mio laboratorio abbiamo documentato una risposta selettiva alle faccine schematiche nei neonati umani di poche ore di vita. Assieme a Marco Buiatti, Manuela Piazza e i pediatri e gli ostetrici dell’Ospedale Santa Maria del Carmine di Rovereto abbiamo potuto osservare una firma neurale specifica che viene meno se le faccine sono capovolte o se la posizione degli elementi strutturali nelle faccine è cambiata. L’articolo è uscito su PNAS e Charles Gross è stato l’editor - colui che dirige e segue il processo di peer-review - per conto della rivista. Forse uno degli ultimi articoli di cui si sia occupato, perché il professore è scomparso ad aprile del 2019 all’età di 83 anni.
Anche se la figura di Charles Gross è poco nota al di fuori della cerchia degli specialisti, molti lettori conoscono sua moglie, la scrittrice Joyce Carol Oates. Uno dei suoi ultimi romanzi (The Man Without a Shadow, Ecco Press, NY) racconta la storia d’amore tra una giovane neuropsicologa e un uomo senza memoria, un personaggio ispirato al famoso H.M., il paziente amnesico profondo a causa di un danno, per l’appunto, alle strutture del lobo temporale. Forse i neuroni della nonna esistono da qualche parte del cervello (nell’ippocampo di alcuni pazienti operati per il trattamento dell’epilessia si è trovato un neurone che risponde in maniera selettiva alle diverse sembianze dell’attrice Jenifer Aniston, cfr. Quiroga, Q. R. (2018). Borges e la memoria. Viaggio nel cervello umano da Funes al neurone Jennifer Aniston. Erickson, Trento).
Mentre finisco di leggere il romanzo penso alla gente che guarda i volti coperti dalle mascherine, e a tutti quei neuroni silenziosi, nella corteccia temporale inferiore. Certo aiuterebbe disegnare sulle mascherine l’elemento strutturale mancante, un simulacro di bocca, così da rendere festosi i neuroni delle facce.