Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2020
Il caso di Homer Plessy e del vagone per soli bianchi
Il 7 giugno 1892 Homer Plessy, alla stazione di New Orleans, comprò un biglietto di prima classe sul treno delle 16.15 per la cittadina di Lake Portchartrain. Aveva ventinove anni ed era un octoroon: nel linguaggio comune all’epoca, una persona con un ottavo di sangue nero.
La bisnonna aveva ottenuto la libertà nel 1779, quando la città era sotto il dominio spagnolo; da allora, la sua famiglia non aveva contato nessuno schiavo; apparteneva alle gens de couleur libres che erano state parte integrante della cultura e della società locali. Il nonno aveva lottato con Andrew Jackson contro gli inglesi nel 1814, e il futuro presidente si era rivolto ai soldati come lui chiamandoli «concittadini»; ma il loro desiderio di esserlo davvero, con gli stessi diritti dei bianchi, era ancora irrealizzato dopo quasi ottant’anni, dopo una guerra che aveva causato centinaia di migliaia di morti e dopo ben tre emendamenti costituzionali che dovevano garantire l’uguaglianza dei neri.
Dappertutto nel Sud, appena le truppe nordiste si erano ritirate nel 1877 concludendo il periodo noto come Ricostruzione, le barriere fra le razze si erano esacerbate. (Non che fossero mai cadute). Si erano moltiplicati i linciaggi, imperversava l’ostruzione al voto e si andava stabilendo un regime di segregazione in tutti gli esercizi pubblici: alberghi, ristoranti, teatri, negozi. E treni: nel 1890 la Louisiana aveva emanato una legge in base alla quale ogni treno doveva provvedere carrozze di «uguale» comfort (le virgolette segnalano l’inadeguatezza del termine), ma separate, per bianchi e neri. Era questa legge che un comitato costituito all’uopo intendeva sfidare; Plessy era stato scelto apposta e la compagnia ferroviaria era complice. Procedendo secondo i piani, Plessy fu identificato come nero (anche se poteva facilmente passare per bianco), arrestato e il suo caso, dopo quattro anni di attesa, arrivò davanti alla Corte suprema, dove (sperava il comitato) sarebbe stata riconosciuta l’incostituzionalità della legge.
Steve Luxenberg è stato per trent’anni redattore capo del «Washington Post», vincendo due premi Pulitzer. Volendo raccontare la storia di Plessy v. Ferguson, un caso che ha fatto la storia giuridica americana (Ferguson era il giudice che aveva riaffermato, contro i legali di Plessy, la legge della Louisiana), ha scelto una strada idiosincratica ma molto istruttiva. In un libro di seicento pagine, l’evento che dà luogo al caso compare solo a pagina 431; quel che precede è la storia anteriore di tre suoi personaggi, tutti bianchi, e, in controluce, di mezzo secolo di vicende americane.
Il primo è Albion Tourgée, l’avvocato che sostenne il caso davanti alla Corte: un uomo tanto cagionevole di salute quanto irrefrenabile nelle sue passioni e nei suoi impegni, entusiastico partecipante alla guerra contro i sudisti ma congedato per infortunio, autore di romanzi di grande successo ma impoverito da investimenti sbagliati, paladino dell’uguaglianza dei neri attraverso comizi, rubriche giornalistiche e la difesa di cause perse. Il secondo è John Marshall Harlan, del Kentucky (quindi del Sud), proveniente da una famiglia che possedeva schiavi e a sua volta difensore dello schiavismo in gioventù ma capace di compiere l’intero percorso fino alla posizione opposta: fino a esprimere l’unico voto dissenziente nella decisione della Corte e a sostanziarlo con un’opinione che si dichiarava sdegnata per l’ingiustizia di quella decisione e prevedeva, come sua conseguenza, un inasprirsi dell’odio razziale e del conflitto sociale. Il terzo è Henry Billings Brown, nato in Massachusetts (quindi nel Nord), laureato a Yale, avvezzo al lusso e al privilegio, irresoluto quanto ambizioso, che scrisse l’opinione della maggioranza, sancendo il diritto dello Stato della Louisiana a emanare le leggi che voleva.
Come si sarà intuito, la Corte negò il ricorso di Plessy, con una maggioranza di sette a uno (un giudice era assente). I nomi dei membri della maggioranza vanno ricordati, a loro perpetua infamia: oltre a Brown, furono Stephen Field, Melville Fuller, Horace Gray, Rufus Peckham, George Shiras e Edward White. Ne seguì quel che Harlan aveva predetto: altri Stati imitarono la Louisiana, la dottrina dei «separati ma uguali» si estese, linciaggi e abusi aumentarono e solo sessant’anni dopo, in Brown v. Board of Education (1954), la Corte avrebbe invertito la tendenza proclamando l’inammissibilità della segregazione nella scuola pubblica.
Ho detto che questo è un libro istruttivo. Lo è in un senso più ovviamente storico, in quanto illustra ancora una volta come lo schiavismo e il razzismo siano il peccato originale degli Stati Uniti, dalla loro fondazione (Washington, Jefferson e Madison erano padroni di schiavi) al «Make America Great Again» di Trump. E lo è in quanto la storia è maestra di vita: in quanto ci mostra che, nel momento in cui il destino chiama, sta a noi scegliere fra dignità e abiezione.