Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  aprile 26 Domenica calendario

La spiazzante Disneyland degli Emirati

Anni fa ho scritto un libretto sul Giappone dopo esserci stato tre mesi, senza sapere una parola di giapponese e senza muovermi quasi mai dalla zona Ueno-Shinjuku. Uno scemo di iamatologo (vulgo giapponesista) mi ha poi fatto osservare che era ben strano che lui che studiava il Giappone da quarant’anni non si fosse mai azzardato a scrivere un libro sul Giappone, mentre io che non ne sapevo niente… Ma non è strano affatto: descrivere superficialmente le cose, e senza tanto capirle, è un modo interessante di descriverle, e il modo del quale il 99% degli esseri umani deve accontentarsi, perché è lì che si ferma la nostra esperienza di quasi tutti i luoghi che attraversiamo nella vita: in superficie. 
Dubai è una calamita per il viaggiatore-scrittore superficiale, perché è un posto chiaramente assurdo, e ci si va con lo stesso spirito con cui si va a Disneyland, o alla convention di Herbalife, o su una nave da crociera nei Caraibi. Si sa che Dubai fino a l’altroieri non esisteva, che «qui mezzo secolo fa c’era solo sabbia»; si sa che la natura è stata non tanto addomesticata quanto abolita (la più grande pista da sci coperta del mondo, sul tropico del Cancro!), che non si pagano le tasse; che l’energia che serve per far vivere Dubai basterebbe... (aggiungere un comparatum iperbolico a piacere), che si costruiscono grattacieli di un chilometro in mezzo al deserto, che buona parte degli abitanti viene dal Sud-Est asiatico ed è soggetta a forme di lavoro semi-schiavile: sono le scure, minute signorine che vi accolgono con spugnette profumate nelle hall esagerate degli alberghi, sono i taxisti, i camerieri, gli sguatteri, giù giù fino ai lavavetri acrobatici che vedete sospesi sulla vostra testa, strofinanti, mentre voi vi tuffate nella piscina dell’albergo.
In questo posto assurdo il viaggiatore-scrittore passa qualche giorno e poi va via, non sa bene cosa fare una volta visitato il Mall, fatta la gita nel deserto, mangiato il mangiabile; non ha contatti significativi con la gente che ci vive anche perché non sa l’arabo, e se è italiano ha seri problemi con l’inglese parlato, perché al liceo invece di fare conversazione in lingua ha studiato soprattutto la letteratura. E poi a Dubai quasi nessuno è di Dubai. Cioè, esistono i dubaini, i residenti figli delle famiglie residenti, ma sono pochi e irraggiungibili, e molti in realtà vivono in climi meno molesti, Europa o America, in un’eterna vacanza. Il genius loci, insomma, se anche c’è, è sfuggente, la “società stretta”, per dirla con Leopardi, è formata soprattutto da expat europei e americani che non ne possono più di sentirsi domandare dal turista di passaggio «Come si vive qui?», perciò rispondono «Come dappertutto», e girano le spalle. In più bisogna considerare che nella sua vita il viaggiatore-scrittore ha letto dei libri, ha assorbito dei Valori, e questi Valori non sono compatibili con il claim che sembra stampato a caratteri cubitali sui palazzi di questa Vigevano del Golfo: fare soldi, per fare soldi, per fare soldi. E poi è spesso anziano, dove anziano può anche voler dire avere quarant’anni, perché Dubai, come il Far West, è un posto da giovani, da spiriti animali, non da intellettuali meditabondi. Il viaggiatore-scrittore insomma guarda ma non fa, non agisce, la calamita non lo attira fuori ma dentro, nella sua suite a cinque stelle da 95 euro (nell’hôtellerie dubaina c’è una concorrenza da fare spavento), con vasca da bagno olimpionica raso-finestra da cui osserva scuotendo la testa le macchine che corrono sull’autostrada, quaranta piani più sotto. Che è una buona strategia per sopravvivere, ma forse non per capire.
Così gli articoli, i reportage, sono spesso amari, risentiti, e altrettanto spesso tramati di una certa Schadenfreude, di attesa-speranza che questo incubo ad aria condizionata soccomba sotto le sue contraddizioni: che cosa succederebbe se finisse l’energia per gli ascensori, per l’aria condizionata, in questi perenni quaranta gradi all’ombra? E se scioperassero i camerieri, i cuochi, gli autisti di taxi e mini-van? Se il Sud-Est asiatico riuscisse a offrire ai suoi figli un mestiere decente, e negasse i suoi schiavi agli emiri? Se l’Iran bombardasse? Se il turismo finisse? Se un virus contagiosissimo e persistente...? 
Ora esce per il Mulino un libro di Emanuele Felice, Dubai, l’ultima utopia, che inizia come un reportage, prosegue come un saggio e finisce con una perorazione-caveat che ci ammonisce a “non diventare come Dubai”, cioè a non sacrificare i valori della democrazia liberale sull’altare del successo economico. La sezione-reportage e la sezione-saggio si leggono con ammirazione, perché Felice sa raccontare in modo appassionante questa incredibile success story, costruita non tanto sul petrolio quanto, prima, sui proventi del portofranco, poi sui trasporti internazionali e sul turismo, ma soprattutto sulla volpina politica di alleanze della dinastia al-Maktoum, tuttora regnante: con i vicini di casa, gli emiri di Abu Dhabi, e con gli Stati Uniti, che negli Emirati hanno una base militare. 
Quanto alla perorazione progressista del capitolo finale (Il futuro), chi mai vorrà preferire il «liberismo senza democrazia» di Dubai al sinolo “economia di mercato + liberalismo” che ha benedetto l’Europa nella seconda metà del Novecento? Però, quanto al metodo, è sempre sorprendente vedere con quanta facilità si dimentichi che per decenni i “veri progressisti” (tra loro il qui pluricitato Pasolini) hanno maledetto proprio quella formazione politico-economica che ora si rimpiange. E, quanto al merito, nella ricchissima bibliografia del libro di Felice manca il secondo migliore reportage dagli Emirati che io abbia letto, La nuova Mecca di George Saunders (il primo è Il canto del diavolo di Siti, che però parla soprattutto di Siti). A un certo punto, il reporter superficiale Saunders torna in albergo dopo una frastornante giornata tra mall e fontane zampillanti, e ha la Rivelazione – la trascrivo qui come amaro promemoria per ogni futura discussione su “capitalismo e democrazia”: «L’uomo è una gioiosa macchina che vende e compra. Ho sbagliato, ho sbagliato di grosso a condannare il consumismo. Il consumismo è connaturato nell’uomo. È, in un certo senso, un sacro impulso. L’uomo è un essere che insegue gioiosamente le cose, le porta a casa e poi inizia subito a fare piani per accumularne altre. L’uomo è un essere che desidera migliorare la propria sorte».