Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2020
A tavola con Patrizia van Daalen
«Quella che io scherzando chiamo l’Internazionale del libro, cioè la comunità degli editori e degli autori globali, sopravviverà. Sopravviveranno anche le librerie indipendenti, di cui in molti annunciano la morte. L’attività economica e l’approccio culturale cambieranno. Ma la passione dei lettori per l’oggetto libro e la dedizione di chi trasforma il talento dei narratori, dei poeti e dei saggisti in un prodotto rimangono i fattori determinanti di una industria editoriale che, a questa recessione, reagirà in modo molto diverso in Europa, in Asia e negli Stati Uniti».
Patrizia van Daalen, classe 1980, è dal 2015 Publishing director di Penguin Random House in Cina. Il suo è un punto di vista sul confine di molti mondi. Penguin Random House è il primo editore al mondo. Lei ricopre questa funzione che, nell’editoria angloamericana, contempera le funzioni di direttore editoriale e di manager.
La Cina è, insieme, distinta e perfettamente integrata nella realtà internazionale. Accade in ogni campo. Succede anche nell’editoria. Patrizia vive fra la Germania e la Cina. Ha casa a Berlino e a Pechino.
In questo momento, per questo “A tavola con” via Skype al tempo del coronavirus, è nella sua casa di Berlino, nel quartiere di Prenzlauer Berg, non distante da Alexander Platz. Dalla sua finestra si vedono i giardini pubblici: «Mio padre Hendrik e mia madre Alma sono venuti a trovarmi da Madrid prima della chiusura delle frontiere. Hanno portato a fare una passeggiata i miei figli Giulio e Lucia. Le prescrizioni contro il contagio qui vengono applicate con molto rigore e con molta rilassatezza. È una caratteristica di Berlino. Le persone osservano la distanza e rispettano ogni precetto pubblico, ma non rimangono chiuse in casa. Senti questa musica? È mio marito Song-Yuzhe, che nella stanza accanto sta provando il nuovo brano che sta componendo. Lui di professione è un musicista. Fa rock e world music».
Patrizia ha apparecchiato per pranzo in sala. A Berlino, oggi, fa fresco. La portafinestra è aperta su un terrazzino. Io sono sul balcone di casa. Ad Arcore c’è il sole. Patrizia ha preparato un piatto unico: una insalata di verdure. «Ho messo zucchine, broccoli e cavolfiori. Le ho bollite e ripassate in padella. Ho condito il tutto con olio di cocco, sale alle erbe, aceto, tofu e peperoncino del sud della Cina. Tu, invece, che cosa mangi?». Io ho un polpettone ripieno di zucca e delle patate al forno. Patrizia usa i bastoncini.
In Cina, è andata la prima volta nel 2000: per un anno ha frequentato la Capital Normal University di Pechino. Era iscritta a sinologia e storia a Leeds in Inghilterra, dopo una infanzia e una adolescenza trascorse fra Monaco di Baviera e Parigi dove il padre, nato a Roma da genitori tedeschi, lavorava per il gruppo cinematografico americano Universal Studios. Tre anni dopo, è tornata in Cina: «Pechino era molto secca e polverosa. Eri in Asia. Ma ti sembrava di stare nel Wild East. Sentivi che tutto era in ebollizione».
Prima è diventata assistente di un fotografo francese, Roland Michaud: «Avrei voluto diventare fotoreporter. Un giorno però caddi dalla bicicletta rompendomi un braccio. Non potevo più seguirlo portando la sua sacca degli attrezzi. La stessa sera dell’incidente incontrai a una cena da amici un signore chiamato Shi-Tao, che poi sarebbe diventato il numero uno di Amazon per l’editoria in Cina. Shi-Tao è stato un personaggio importante dell’editoria cinese. Lui era molto americanizzato. Un vero publisher. Mi chiese se volessi leggere qualcosa, autori stranieri da tradurre in mandarino per la sua casa editrice, la Alpha Books. Dovevo rimanere in casa, a letto o sul divano, per un mese e mezzo. Dissi di sì».
Quando Shi-Tao nel 2005 è andato in Amazon, lei è passata a Shanghai 99, una casa editrice specializzata in autori stranieri. In questi anni van Daalen è diventata la chiave di accesso per agenti internazionali come Andrew Wylie e Andrew Nurnberg e per scrittori come David Grossman («come persona, il mio preferito»), Margaret Atwood, Arundhati Roy, Janet Winterson e Stieg Larsson. Fra i classici Dino Buzzati, Saul Bellow, Primo Levi, Mario Vargas Llosa e Philip Roth. «Nel 2015 Penguin, che aveva un ufficio in Cina fin dal 2005, mi ha offerto l’attuale posizione», dice mentre si versa un bicchiere d’acqua. «Tu bevi vino, Paolo?». No, oggi no. «Io a mezzogiorno mai. Piuttosto, un Negroni a metà pomeriggio», dice lei.
Il suo punto di vista, sull’evoluzione dell’editoria e sulla mutazione dell’idea di libro, è appunto il risultato di un’esperienza di confine: «La crisi metterà alla prova tre sistemi e tre culture dell’editoria molto differenti. Il modello angloamericano è fatto di puro mercato nei risultati, di flessibilità nelle strutture manageriali, organizzative ed editoriali e di rapidità estrema nelle scelte. Quello europeo è insieme più solido e più rigido, meno reattivo rispetto alla evoluzione dei gusti e alla fluttuazione della domanda ma con una consistenza e una durabilità maggiore delle strutture organizzative, che non a caso sono oggi le uniche ad avere una tutela del posto di lavoro ancora consistente. Il modello cinese contempla l’iniziativa privata, ma su una base di iniziativa pubblica molto forte e prevalente in tutto e per tutto: ha un mercato enorme ancora tutto da sfruttare, significativi condizionamenti della politica e supporti statali altrove impensabili. Una forma di soft power molto sostenuta e amplificata, per la tutela degli interessi e la trasmissione dei valori del Paese e del regime, è rappresentata dalla vendita all’estero di diritti di autori cinesi. All’ultima fiera di Pechino sono stati acquistati i diritti per la traduzione in mandarino di 2.600 titoli stranieri e sono stati venduti i diritti di 3.840 titoli cinesi a editori stranieri».
Van Daalen è realista. Sa che l’impatto sui conti economici e sulle produzioni editoriali della recessione indotta dal Covid-19 sarà profondo: «Soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, meno in Cina». Ma non è apocalittica: «Sono entrata nell’editoria nel 2003 e, già allora, sia in Occidente sia in Asia si pensava che l’editoria digitale avrebbe cancellato l’editoria di carta. Non è stato così. Anzi, si è creato un altro mercato, che non ha cannibalizzato ma che si è aggiunto a quello tradizionale. Non mi spaventa lo shock della recessione da Covid-19. Ammesso che si tenga, la Buchmesse di Francoforte, a ottobre, sarà un passaggio importante».
La sua dimensione di confine – fra editoria pensata ed editoria gestita, fra lingue e mondi differenti, fra modelli di editoria distanti – si riflette anche nella sua personalità, in fondo, doppia: pechinese e berlinese. Essere sul confine comporta la costruzione di uno sguardo multiplo. Ma ha, con sé e in sé, anche dei rischi.
«Anni fa io e mio marito abbiamo comprato questa casa a Berlino – racconta Patrizia – e, adesso, ci sta tornando utile. Siamo qui dall’agosto del 2019. Preferiamo che i nostri bimbi frequentino la scuola in Europa. Lucia è iscritta al primo anno di elementari in questo quartiere. Per Giulio abbiamo trovato un nido che ha sia educatrici tedesche sia educatrici di Taiwan». C’è, poi, anche un’altra ragione per cui è preferibile per la sua famiglia stare in Europa: «Diciamo che, dal regime comunista, abbiamo ricevuto dei segnali. Mio marito, che compone musica, ha avuto alcuni concerti interrotti. Abbiamo mantenuto la casa a Pechino. Ma è stato meglio venire qui. Mio marito ha in corso due commesse: per una galleria d’arte della città di Wuxi, vicino a Shanghai, e per la colonna sonora di un film del regista Zhou Ziyang. Poi, vedremo: anche per lui, Berlino sembra un mercato culturale ricco e con opportunità. Io, da Berlino, riesco a lavorare con la componente editoriale e manageriale cinese e con il circuito degli agenti e degli autori internazionali. Grazie alle video riunioni e alle telefonate, non cambia molto rispetto a quando stavo in Cina. Lo faccio da otto mesi. Il metodo sta funzionando».
La Cina è molto particolare. Le case editrici private – sia cinesi sia straniere – devono essere affiliate a un editore controllato dallo Stato perché i loro libri ricevano il codice Isbn. È meglio non trattare alcuni argomenti: le tre T, per esempio, cioè Taiwan, Tiananmen e Tibet. Ci sono dei “suggerimenti” che arrivano dai funzionari delle case editrici di Stato con cui uno lavora per alcune parole che, in maniera incomprensibile per noi occidentali, diventano proibite: «Per esempio, come Penguin Random House, abbiamo pubblicato la traduzione di “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli. La parola “brevi”, dopo pochissimo tempo, è diventata sgradita e non utilizzabile in un titolo. Ancora adesso non so perché. Ma, se questo fosse successo prima di tradurlo, avremmo dovuto cambiare il titolo».
Tutto questo, a fronte di una realtà economica in grande espansione. Il 76% dei cinesi sono considerati “lettori”: la media è di otto libri all’anno, la metà in formato cartaceo e la metà in e-content. Il mercato del libro cinese sviluppa un giro d’affari annuo stimato in 10 miliardi di dollari. Un quarto è costituito dall’editoria per i bambini: «Per il regime comunista e per la società cinese è un veicolo importante di diffusione dei propri messaggi politici e di proposta dei propri valori culturali. Nel 2008, le vendite dei libri per i bambini valevano poco più di mezzo miliardo di dollari e, adesso, superano i 2,5 miliardi di dollari all’anno», spiega van Daalen.
Nella complessità e nel sovrapporsi dei mondi, torniamo alla quotidianità delle piccole cose alla fine del nostro pranzo fra la Brianza e Prenzlauer Berg: «A Pasqua ho fatto una torta di arance e cioccolato. Oggi nulla. Tu, allora, prendi il caffè con la moka? Io, invece, qui bevo un caffè espresso con il latte».