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 2020  aprile 24 Venerdì calendario

Giornali, il valzer spensierato dei direttori

In gioco quattro direttori diversamente bravi. Uno solo torna, per ora e spero per poco, a casa. Il cambio di direttore nei giornali è fatto usuale soprattutto quando cambia l’editore. Io ricordo le volte in cui hanno cambiato me. Ero diventato direttore dell’ “Unità” perchè Walter Veltroni andò al governo come vice di Romano Prodi. Con Veltroni si lavorava benissimo. Faceva un bel giornale che però era un disastro finanziario. Quando lasciò la carica si aprì un segreto dibattito sulla successione. C’era un candidato naturale che però era scomparso pochi mesi prima, Andrea Barbato, uno dei giganti del giornalismo. Senza di lui c’ero io, Sansonetti, che aveva con sé il grosso della redazione, e poi i candidati di D’Alema, allora segretario dei Ds. Cioè Mino Fuccillo, ma soprattutto Federico Rampini, vero pupillo di D’Alema.
I due non mi piacevano e per questo dissi al segretario dei Ds che non avrei ritirato la candidatura e fui nominato. Mesi difficili, d’improvviso l’editore-partito scoprì che i conti erano saltati, nel giro di poco tempo chiusi l’esperienza delle cassette di film al sabato e del libretto settimanale, chiusi anche quasi tutti gli uffici di corrispondenza all’estero. Ma non bastava. In verità il partito editore voleva liberarsi del suo giornale. Compratore sarebbe stato Alfio Marchini.
Una sera verso l’ora di chiusura venne da me Maddalena Tulanti, capo redattore, che mi riferì che a “Repubblica” stavano festeggiando Mino Fuccillo appena nominato Direttore dell’Unità. Ovviamente io niente sapevo. Scrissi a D’Alema che sarei andato via l’indomani ma mi lamentai del modo. Due giorni dopo mi convocò Marchini che mi dichiarò massima stima concludendo: “Ho dovuto cambiarla, sennò come si capiva che il padrone sono io?”.
Fuccillo venne poco tempo dopo, con comodo, mi chiamò e gentilmente mi offrì di scrivere qualunque cose mi fosse venuta in mente purchè non si trattasse di argomento politico. “So solo di politica”, gli dissi e non ci vedemmo più.
Una mattina ricevetti una telefonata, era sul presto, dell’ing. Carlo De Benedetti che mi invitava a prendere un caffè nella sua casa romana. Andai intimidito, come sempre mi accade nelle relazioni nuove, e l’ingegnere nel suo palazzotto a fianco dell’Ambasciata di Francia mi disse cose molto gentili, professionalmente gentili, e mi anticipò che, a suo parere, Fuccillo non sarebbe rimasto a lungo alla direzione del quotidiano per ragioni caratteriali. Così fu. In verità De Benedetti voleva anche saper cose di D’Alema, non cose segrete ma conoscerlo meglio attraverso una persona amica. Mi era capitato alcuni mesi prima di essere invitato a pranzo alla fureria dello Stato maggiore dell’esercito dal gen. Canino, simpatico militare rotondetto e colto. Pranzo leggero, troppo, chiacchiera del più e del meno e alla fine la domanda: “Mi dica Caldarola, ma D’Alema potrebbe essere il nuovo Andreotti”. Dissi di no e non fui più inviato.
Fuccillo andò via e venne Paolo Gambescia, che da ragazzo era stato all’Unità che mi chiese di scrivere “solo” di politica, talmente solo di politica che la sera in cui Guazzaloca espugnò Bologna mi telefonò dicendomi: “Scrivi tu, in fondo è roba vostra”. Poi andò via anche Gambescia e l’Unità era agli sgoccioli. Chiamarono me con una motivazione ineccepibile: non hai nulla da perdere, se ci riesce bene, sennò pazienza. Ci provai. Mi feci molti amici. Nelle settimane cruciali ebbi tante prove di simpatia per il giornale. Il Tg3 mi chiamava a fare la rassegna stampa notturna per parlare della nostra situazione. Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere, mi annunciò che il suo editore era pronto a mandarci carta per farci sopravvivere alcune settimane. Un famoso regista mi portò un improbabile compratore. Emilio Fede mi telefonò per dirmi che il Cavaliere era pronto a fare quel che sarebbe servito a tenerci in vita. Persino Fiore di Forza Nuova si disse pronto a un piccolo contributo.
Mi chiamò anche Sandra Mondaini, “La chiamo dalla camera da letto così non sente mio marito” e mi disse che tifava per noi anche perchè io sembravo educato mentre “i suoi amici politici sono così arroganti”.
Una sera convocai una assemblea in cui D’Alema avrebbe dovuto annunciare un piccolo contributo della sua fondazione al giornale. Mentre eravamo tutti riuniti mi chiamò il liquidatore che mi disse: “Chiuda l’assemblea e vada a fare il giornale. È l’ultimo che farà”. Andò così.
Era andata diversamente a un mio caro amico direttore dapprima di un grande giornale romano e poi alla testa di un importante settimanale di proprietà di Berlusconi. Si avvicinavano le elezioni e il tycoon lo chiamò e gli disse, più o meno, “non ti posso chiedere di fare un giornale che serve alla mia campagna elettorale, quindi è meglio se ti mando via”. “Mi faccia felice, allora”, gli rispose il mio amico, uomo di grande ironia. E ricordava. “Credimi, mi fece felice”. Chissà come è andata con Verdelli.