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 2020  aprile 24 Venerdì calendario

Parla Patrizio Bertelli (Prada)

Mentre ad Arezzo preparava i programmi per far ripartire in sicurezza le fabbriche dopo il lungo stop provocato dal coronavirus, Patrizio Bertelli osservava sbalordito le immagini di auto in fila verso le seconde case per le festività pasquali. «Se ci sarà qualche ricaduta», dice l’amministratore delegato di Prada, «sappiamo quale ne è l’origine: in chi non ha saputo stare nella sua città ma è andato ad aprire le case a Cortina, a Forte dei Marmi, in Liguria. Come quel famoso sabato in cui tutti scappavano di qua o di là. Trovo che il vero scandalo sia questo». Non, insomma, i tentennamenti del governo, i contrasti con le Regioni o i problemi negli ospedali.
«So che c’è chi fa polemica con il governo, ma con il senno di poi sono tutti bravi a parlare...», risponde Bertelli che controlla insieme alla moglie Miuccia e alla sua famiglia il gruppo Prada, 3,2 miliardi di euro di ricavi, quotato a Hong Kong.

«Credo che si debba essere più comprensivi: ci si è trovati di fronte a una situazione imprevista e imprevedibile, nessuno si sarebbe immaginato un quadro di questa dimensione. Quello che, invece, è davvero inammissibile è il non essere stati capaci di fare un minimo di sacrificio... dimostra un egoismo che non tiene conto dello Stato, della società, della morale, di niente. Si parla spesso a sproposito di morale: questa è la prima circostanza in cui è il caso di parlarne». Perché, sottolinea, «per colpa di chi non vuol capire la situazione, viene danneggiata una marea di persone. Ci perde una filiera industriale, ci rimettono gli operai che hanno bisogno di lavorare e vivono del loro stipendio».
E, allora, «chi non rispetta le regole deve essere sanzionato pesantemente. Ma non con una multa: bisogna togliere la patente, è l’unico deterrente del quale la gente ha paura». Una ricaduta di contagi sarebbe tremenda. Non solo da un punto di vista sanitario, ma anche da un punto di vista economico. Già oggi il Fondo monetario internazionale stima che l’Italia sarà il Paese che più di tutti pagherà le conseguenze della pandemia, con un calo del Pil del 9,1% quest’anno, seguito da un rimbalzo del 4,8% l’anno prossimo. Insieme al turismo e al commercio, la moda (intesa in senso largo) è il settore più colpito. Gli imprenditori hanno chiesto a gran voce di poter tornare al lavoro — con tutte le condizioni di sicurezza del caso — perché blocchi troppo prolungati creano problemi di liquidità, tolgono quote di mercato di cui approfittano i concorrenti (negli altri Paesi, pur colpiti dal virus, le fabbriche non si sono chiuse del tutto), rischiano di distruggere quell’unicum italiano che è la filiera: una miriade di piccoli laboratori di nicchia, molto flessibili, a cui si appoggiano le grandi aziende per le forniture.
L’interrogativo è quanto a lungo potrà reggere in queste condizioni. Prada, maison milanese, in Italia ha stabilimenti in Toscana, Umbria, Veneto e Marche. «Faremo la nostra parte con i nostri fornitori, come Zegna o Renzo Rosso faranno lo stesso con i loro. Ma sono migliaia e migliaia di imprese in tutta l’Italia. La mia proposta è che lo Stato dia loro contributi a fondo perduto; naturalmente alle aziende sane, non a chi fa il furbo. A Prada è giusto chiedere che restituisca i finanziamenti, ma un artigiano non può stare con questo pensiero. Anche perché molti di loro sono anziani e si domanderanno se conviene restare aperti o è meglio chiudere. Questa crisi potrebbe essere un acceleratore di chiusure». Significa disoccupazione.
«In America ci sono già 15 milioni di disoccupati, lo Stato dovrà in qualche modo accompagnare queste persone». Una volta perso il know how si può ricostruire da qualche altra parte? Magari in un Paese concorrente? «In casi come questi», risponde, «la società si sviluppa verso altre direzioni e altri prodotti. È l’essere umano che si adegua al cambiamento. Quindi, certi prodotti cadranno in disuso, come è successo — per fare un esempio eclatante — ai bastoni da passeggio. Non essendoci più artigiani che li realizzano, finisce il consumo. È sempre stato così. È un passaggio della storia». Eppure per Bertelli il know how italiano dovrebbe essere protetto come si fa con un brevetto. «Ne ho fatto una battaglia in tutta la mia vita», sottolinea. «Sappiamo esattamente quante sono le fabbriche, piccole e medie, sparse in Italia e che rappresentano il vero lavoro della moda e di tutto il suo indotto, gli accessori, i pellami, le concerie, i tessuti... non c’è bisogno di uno che alzi la voce, si può benissimo capirlo».
Ma il tema di uno che alzi la voce c’è. La moda ha sempre avuto poca attenzione da parte dei governi. Un pregiudizio verso qualcosa che è ritenuto futile? «Il punto vero è che non c’è un’unica struttura rappresentativa del settore che dialoghi con il governo come fanno i metalmeccanici, che sono poi anche meno di noi ma storicamente più ascoltati. Non c’è nemmeno un sindacato unitario della moda. È un’assenza che genera mancanza di appartenenza. Siamo divisi in diverse associazioni e quando, nel 2012, ho cercato di riunirle tutte in una sola, che avesse al proprio interno Pitti, la Camera della moda, Altagamma e le altre, sembrava di rubare a ciascuno un pezzettino della propria storia. Ecco, manca una associazione forte che ci rappresenti all’interno del sistema, che ne porti avanti le tematiche e soprattutto le faccia conoscere».
«L’ho detto e ridetto, ma la gente non ascolta. Eppure, tutti ci vestiamo la mattina, ci mettiamo le scarpe, portiamo gli occhiali, non possiamo dimenticare che c’è questa industria». Con la crisi è riemerso il timore che aziende italiane in crisi di liquidità possano essere rilevate da operatori stranieri. Le grandi imprese come Prada potrebbero essere capofila per evitare questo pericolo? «Anche questo è un argomento che abbiamo discusso in lungo e in largo e se ci fosse stata una associazione forte probabilmente si sarebbero costruiti anche dei criteri di difesa. Ma mi sembra che oggi ormai tutto quello che poteva accadere sia accaduto, non può succedere tanto di più».