La Lettura, 26 aprile 2020
L’idea di mondo di Aldo Tambellini
Aldo Tambellini – filmmaker sperimentale italoamericano, videoartista e poeta, esponente dell’underground statunitense tra gli anni Sessanta e Settanta, pioniere dell’intermedialità e del video d’artista, protagonista del Padiglione Italia della Biennale del 2015 curato da Vincenzo Trione – compirà 90 anni il 29 aprile. Alla Tate Modern di Londra è allestita un’esposizione temporanea, programmata fino al 5 luglio ma desolatamente vuota a causa del Covid-19: una grande stanza buia, illuminata dai Lumagrams, le sue opere simbolo che vanno a comporre Cell Series, in una selezione evocativa della fase embrionale. E poi The Strobe, video, rumori, tutto che fluttua nel nero, il colore di Tambellini.
La vita di Tambellini si contraddistingue per una lucida filosofia che ha sfidato l’establishment culturale: l’arte come creatività pura, il diritto degli artisti all’indipendenza e pari accesso alle opportunità. È stato il primo artista a fare uso dei nuovi media, convinto che questo approccio avrebbe affrancato l’arte. Tambellini è stato il fondatore del Group Center, circolo di artisti promotori di un’arte fruibile da tutte le classi sociali. Queste forti convinzioni sono state all’origine di molti problemi e sofferenze.
Raggiunto via Skype – vive a Cambridge, Massachusetts (Usa) – Tambellini risponde alle domande de «la Lettura» in perfetto italiano.
Quali ricordi ha dell’Italia?
«La mia vita è segnata da un evento tragico. 6 gennaio 1944, ore 13. Lucca è bombardata dagli americani e il quartiere popolare dove vivo con mia mamma, mio fratello e mia nonna, è raso al suolo. Davanti a me muoiono ventuno miei amici – avevo 13 anni – e molti vicini. Altri rimangono mutilati. Ho il ricordo, nitido, delle allucinazioni di cui ha sofferto mia madre a causa della guerra. Nel 1947, in America – avevamo raggiunto da poco mio padre, che era partito quando avevo 19 mesi – durante una di queste crisi chiamai un’ambulanza. Venne sottoposta a elettroshock e rimase per due anni in un ospedale psichiatrico. Poi decise di tornare a vivere con mia nonna in Italia».
Che cos’è l’arte?
«Una compagna di lunga vita, nella quale sono riuscito a identificarmi fin da quando avevo tre anni e mi sedevo al tavolo a disegnare mentre mia nonna rammendava calze. Ho sempre accettato l’arte come un’energia che faceva parte di me: molto più potente di qualsiasi altra esperienza io abbia fatto, molto più importante di qualsiasi altra cosa io abbia desiderato, ben al di là di quanto la mia mente sia in grado di comprendere. Qualcosa a cui non fare domande, sulla quale non discutere. Il suo nutrimento è l’intuizione, il suo risultato la creatività».
Che cos’è il nero?
«Nel 1959, quando mi trasferii a New York, mi ritrovai immerso nel nero: era il colore dei portoricani che vivevano nel Lower East Side, il quartiere dove avevo preso in affitto un appartamento per pochi dollari; era il colore delle prime esplorazioni dello spazio cosmico; era il nero delle persone che lottavano contro le discriminazioni razziali. Il nero è il principio di tutto ciò che dev’essere. È l’essere ciechi ma vigili».
Qual è la relazione tra scienza e arte?
«Non penso di poter separare la scienza dalla mia arte: la scienza è l’invisibile che diventa visibile. Nei primi anni Cinquanta, Harold Kasnitz, un mio amico fisico, aveva fotografato i raggi cosmici, che apparivano come serie intricate di forme circolari. Anni dopo, al Mit di Boston, Harold mi fece notare come la mia arte fosse influenzata dalle immagini che avevo visto nel suo laboratorio. Sono stato molto felice di essermi trovato al crocevia tra arte e scienza quando diventai fellow al Center for Advanced Visual Studies (Cavs) del Mit. Oggi gli artisti immaginano lo spazio e pensano persino di andarci (come Michael Najjar, fotografo tedesco, avventuriero e futuro astronauta, ndr); io credo di avere esplorato lo spazio senza lasciare la Terra, grazie all’astronauta Aleksej Leonov: la sua descrizione del nero è stata per me una conferma di quello che già da tempo pensavo. L’oscurità dello spazio, per me prima invisibile, diventò visibile».
Lei inventò Electromedia: qual è stato e qual è, oggi, il suo significato?
«Ho sempre pensato che il progresso nel campo dei media e della tecnologia avrebbe portato a un’ampia proliferazione nel loro uso. Negli anni Sessanta sperimentavo le nuove tecnologie utilizzando monitor e girando video e poi l’ho arricchita con altre arti: jazz sperimentale, poesia, suoni ambientali. Credevo nell’integrazione delle arti in un’unica performance. New York era il fulcro degli happening artistici, ma io volevo andare in una nuova direzione, qualcosa che non aveva neppure un nome. Qualcuno l’aveva chiamato “teatro dei sensi”, io ho preferito chiamarlo Electromedia. A differenza degli happening, integrai tra loro tutti i tipi di media: un bombardamento di immagini astratte, brevi e veloci su schermi o palloni gonfiabili, monitor accompagnati da rumori ambientali e suoni distorti, per immergere in maniera totale gli spettatori. Si sperimentava un’alterazione della realtà e dei sensi».
Oggi, siamo ancora «primitivi di una nuova era»?
«Nel 1961, quando coniai quest’altra espressione, mi riferivo ai progressi tecnologici raggiunti dall’uomo: avevamo scoperto il potere dell’atomo e intrapreso la strada dell’energia nucleare, i figli di quell’epoca erano i “primitivi” che avrebbero sperimentato l’assenza di peso, come gli astronauti. L’umanità iniziò a desiderare un nuovo corso: il razzismo non era più accettabile così come la divisione tra chi possiede molto e chi non ha nulla, mentre le persone di colore rivendicavano uguali diritti. Se dovessimo pensare a quell’epoca, potremmo dire che tutti i nostri nemici erano facilmente identificabili, sapevamo chi era responsabile dello status quo e come denunciare quello che succedeva. Nel 2020 dobbiamo affrontare un problema non altrettanto trasparente e identificabile. Abbiamo incontrato un nemico che ci ha colto di sorpresa e che non ci saremmo mai aspettati. In questo senso, siamo nuovamente dei “primitivi” che stanno intraprendendo un nuovo viaggio per imparare a navigare in un mondo sempre meno sicuro, in cui vivere con nuove regole, in cui vedere molte persone morire a causa di un’infezione virale che influisce su ogni aspetto della nostra vita. Siamo consapevoli di essere in una nuova realtà, che la nostra vita cambierà per sempre, così come le nostre priorità, e comprendiamo quanto siamo tutti interconnessi. “Com’eravamo quando eravamo uomini?”, scrissi in una delle mie poesie. Penso che la domanda sia ora, più che mai, attuale».
Quanto è importante la poesia per la sua arte?
«Presto uscirà un libro di poesie dedicate alla tragica morte di Sarah, la mia prima moglie, con la quale ho trascorso 25 anni. La poesia mi aiuta».