La Lettura, 26 aprile 2020
Intervista allo scrittore Mark O’Connell
«Il futuro è confuso, è incerto. Per questo, per capire, per riuscire a convivere con i peggiori scenari, mi sono messo in viaggio nei luoghi dove le ombre di questo domani hanno già iniziato a proiettarsi». Un viaggio vero, dalla Scozia al South Dakota a Los Angeles, dalla Nuova Zelanda a Chernobyl, iniziato quattro anni fa, diventato un libro finito di scrivere nell’estate 2019, uscito in inglese il 16 aprile. Un testo più che mai attuale oggi: utile a interrogarci, soprattutto, sul tipo di mondo, sul tipo di società, che vorremmo dopo l’emergenza, ma da costruire già durante l’emergenza, in questo tempo forzato in cui con il Covid-19 dovremo convivere. E un testo-monito: sui rischi che corriamo se non cambiamo i nostri modelli.
Notes from an Apocalypse. A Personal Journey to the End of the World and Back («Note da un’Apocalisse. Un viaggio personale alla fine del mondo e ritorno») dell’irlandese Mark O’Connell, è il partecipato resoconto di un «pellegrinaggio», dice lo stesso autore, tra chi è convinto che il mondo sia destinato al collasso e cerca una strategia per sopravvivere dopo la catastrofe. Un’opera di non-fiction letteraria, come la precedente Essere una macchina (Adelphi, 2018): un reportage, in quel caso, sul Transumanesimo, tra chi invece aspira a sconfiggere la morte grazie alla tecnologia, trasformando noi esseri umani, almeno in parte, in macchine. Un libro acclamato a livello internazionale, vincitore di riconoscimenti come il Wellcome Book Prize e il Rooney Prize.
Anche in Notes from an Apocalypse O’Connell si rivela un attento indagatore del futuro, o meglio del modo in cui gli individui si preparano al futuro, ed è in grado di cogliere, anticipandoli, gli interrogativi cruciali di una civiltà. Di nuovo esplora situazioni estreme, seppure di segno opposto. Dopo essere stato tra chi pensava che potessimo vivere in eterno, ora si muove tra chi crede che ci estingueremo: i cosiddetti Preppers (appunto: «coloro che si preparano», prepping è slang per preparing), impegnati a organizzarsi per l’autosostentamento in vista del disastro, ecologisti sfiduciati, magnati dell’immobiliareche nelle Black Hills del South Dakota costruiscono bunker hi-tech, miliardari della Silicon Valley, tra i quali Peter Thiel – il fondatore di PayPal, tra i primi a investire in Facebook – che compra terre ad Auckland, nella speranza che lì il collasso non arrivi, ed Elon Musk che cerca la via di fuga su Marte.
Figure al limite, dal pensiero radicale, individuate già prima del nuovo coronavirus. Ma comunque «simboli», come dice lo stesso O’Connell, di alcune tendenze e pulsioni umane, che possono avere ricadute anche sui modelli sociali ed economici. Un’occasione per provare a visualizzare scenari di futuro, ora che la pandemia richiede a tutti noi, come ha scritto Paolo Giordano sul «Corriere», lo sforzo di «pensare l’impensabile». Una categoria usata, a proposito della crisi ambientale, anche da Amitav Ghosh nel suo La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza, 2017). «La Lettura» parla via Skype con O’Connell, mentre è in casa, a Dublino, con la moglie e due bambini.
Nel libro scrive che «i segni dell’apocalisse si vedono ovunque». Quali sono?
«Viviamo in un’epoca in cui si colgono già gli scenari peggiori, una serie di catastrofi collegate. Nel volume segnalavo la possibile diffusione di nuove malattie, e certo non avrei mai voluto che diventasse così attuale. La pandemia sta colpendo un mondo che sembrava già esausto, destinato al disfacimento. Un milione di specie rischia l’estinzione immediata. La ricchezza e il potere, in quelle che sono nominalmente democrazie, sono sempre più nelle mani di pochi. Le vecchie alleanze, gli accordi postbellici, subiscono cedimenti. Il populismo di estrema destra è un pericolo. Gli elaborati set della politica globale, i saloni e i candelabri, vengono smantellati, mettendo a nudo la crudele macchina del capitale. C’è il grosso rischio che la disoccupazione s’impenni: un pericolo che c’era già prima per l’automazione e ora, soprattutto, per il coronavirus».
Cita l’autore tedesco Hans Magnus Enzensberger, che già negli anni Settanta parlava di un’«apocalisse in slow motion»: non più una catastrofe improvvisa, considerata in passato frutto della volontà di Dio, ma lenta e prodotta dalle nostre stesse azioni. Ancora oggi tuttavia, nota lei nel libro, non abbiamo elaborato un paradigma mentale adatto a concepire queste nuove forme di apocalisse, ad esempio il cambiamento climatico. Accade anche per il coronavirus? Siamo spiazzati?
«La lentezza di cui parla Enzensberger è qualcosa di recente nella storia. In passato l’apocalisse, dal punto di vista religioso ma anche secolare, è sempre stata considerata un evento singolo improvviso, un flash accecante dal cielo, una bomba nucleare. Oggi, pensiamo al cambiamento climatico, la fine dei tempi appare più come una lenta dissoluzione. E questo fa sì che non abbiamo il paradigma mitologico per darle un senso, non sappiamo come pensarla, come darle una forma. Nello specifico del coronavirus, da un lato il contagio ha cambiato le nostre vite da subito: ci siamo chiusi in casa e alcuni fenomeni, ad esempio l’uso della tecnologia, hanno avuto un’accelerazione incredibile, come se il futuro fosse arrivato a grande velocità. Dall’altro lato però è lenta l’attesa che i contagi diminuiscano e non si sa quando ne usciremo davvero. Se immediate sono alcune conseguenze della crisi, come quelle finanziarie, ci vorrà però più tempo per elaborare nuovi modelli che cambino nel profondo l’economia, la società, la politica. Ma è necessario farlo. Lo scrivevo già nel libro: il modo in cui abbiamo vissuto finora non è più sostenibile».
La questione è se saremo in grado di cambiare. E come, in quale direzione. Alcuni incontri narrati nel suo volume suonano come un avvertimento sulle strade da evitare.
«I Preppers, ad esempio. Mi sono fatto l’idea che siano una sottocultura composta soprattutto da maschi americani bianchi, perlopiù di estrema destra, che immaginano il post-catastrofe come un mondo reazionario in cui tornare a una vita rurale, basata su individualismo e autosufficienza, nella quale è l’uomo a provvedere alla famiglia e la donna è in casa. Più che esprimere una visione di futuro, una exit strategy, il loro movimento sembra un sintomo isterico dell’America di oggi».
Ora che siamo tutti isolati e spaventati rischiamo che anche le nostre società diventino più chiuse, reazionarie, individualiste?
«Gli uomini di cui parlo nel libro sono reali, ma possiamo anche leggerli come personaggi di un romanzo, “simboli” appunto di alcuni stati d’animo. Quello che ho capito dei Preppers, ma anche dei capitalisti che cercano nuove terre, è la loro totale sfiducia nella nostra civiltà, che ritengono fragile. Almeno per ora però qui in Irlanda, ma credo anche altrove, non tutta la popolazione si è accapigliata al supermercato per la carta igienica. Ci sono persone spaventate, terrorizzate, specie tra chi ha oltre settant’anni, ma la maggior parte non è diventata selvaggia, anzi, rema nella stessa direzione, per venirne fuori. Sarà la forza delle comunità che già esistono, non i bunker dei privati a salvarci. Detto questo, è innegabile che l’isolamento e le nuove paure, prima di tutto quella del contagio, possano causare derive regressive. I rischi di una maggiore chiusura ci sono. Nella dialettica lento-veloce di cui dicevamo, alcune priorità sono cambiate in fretta. Un esempio, da noi, è il punto di vista sul confine con l’Irlanda del Nord».
Che cosa è successo?
«Fino a poche settimane fa qui si parlava solo della Brexit, di quanto fosse importante che la frontiera con l’Irlanda del Nord rimanesse aperta. Ora invece, “Peccato che sia aperta”, si sente dire, perché a causa del virus si temono la circolazione, i contatti».
Queste paure favoriscono i partiti di destra?
«Certamente c’è la possibilità che se ne avvantaggino, e questo tipo di narrazione è già stato avviato. Ma anche la sinistra avrebbe delle frecce al suo arco: affrontare questioni come il reddito universale di base o il sistema sanitario per tutti. Il capitalismo com’è adesso è inconciliabile con la speranza nel futuro e con una vita equilibrata e dotata di senso. C’è tanto lavoro da fare».
Lei è molto critico, in particolare, verso il capitalismo tecnologico. Nel corso del viaggio che ha ispirato il suo libro ha partecipato al raduno annuale della Mars Society a Pasadena, in California. E il suo giudizio è duro verso chi, come Elon Musk, pensa a Marte come una sorta di «pianeta di riserva».
«Un’impresa privata come la SpaceX di Musk, per spedire gli esseri umani – i ricchi, beninteso – su Marte, riflette quanto di più degradato e abietto ci sia nella nostra epoca. D’altra parte è la stessa persona che ha lanciato una delle sue Tesla nello spazio, deturpando così anche il vuoto cosmico con la scintillante immondizia del consumismo. Definirei Musk un “visionario” solo in senso ironico. La sua è una visione fuori moda e autolimitante del futuro, bloccata nel passato. Mi fa venire in mente i cartoni animati deiPronipoti, ambientati nello spazio ma con la famiglia protagonista ancora profondamente patriarcale. Ugualmente Musk guarda all’universo, ma con un paradigma novecentesco, quello ormai superato di quando si voleva andare sulla Luna. Non è un caso che lui e chi gli sta intorno usino per l’eventuale impresa su Marte la parola “colonizzazione”, un termine che ci riporta a un altro immaginario rivelatosi fallace: il mito della frontiera, di un’America di pionieri conquistatori, di un futuro che si espande senza fine».
Quando ha scritto «Essere una macchina» l’idea di un futuro senza limiti, dell’uomo al centro del mondo anche grazie alle tecnologie che lui stesso crea, era ancora viva. Il virus sta ridimensionando il ruolo dell’essere umano? Ne rimette a nudo la vulnerabilità?
«Su Twitter ho scritto scherzando che adesso mi sarei convertito al Transumanesimo: se la mente umana fosse “caricata” su una macchina e trascendesse il corpo, non avrebbe più a che fare con il coronavirus. Ma anche questo sarebbe un incubo, oltre che, oggi, una fantasia. In questo momento non pubblicherei un libro sul Transumanesimo: l’idea di un radicale ottimismo sul futuro sarebbe un assurdo anacronismo. Essere una macchina è andato bene, ha avuto tanti lettori, ma già quando uscì in inglese, nel gennaio 2017, nella stessa settimana in cui Donald Trump si insediò alla presidenza, ebbi la sensazione che tutto sarebbe cambiato. Ecco, possiamo dire che Notes from an Apocalypse condivide con il libro precedente la domanda sul futuro, ma questa volta mi sono calato tra chi è più radicalmente pessimista».
Come spesso si dice, la verità sta forse nel mezzo. La tecnologia, ad esempio, non ci renderà immortali ma in questo momento ci sta aiutando.
«Il mio stesso libro non sarebbe uscito se non ci fossero stati l’ebook e l’ecommerce. Al contempo però le librerie indipendenti sono in difficoltà. Per questo spero che qualcuno l’abbia ordinato anche lì. Le compagnie tecnologiche, Amazon, Apple, stanno aumentando i guadagni. E poi Spotify, Netflix, piattaforme come Zoom che ci permettono di continuare a comunicare. Non possiamo negare, però, che il modo in cui stiamo vivendo non sia che un patetico rimpiazzo della vita di prima. Assomiglia al futuro disturbante che già nel 1977 lo scrittore britannico J. G. Ballard immaginò in Riunione di famiglia (in inglese il titolo originale, per noi oggi così drammaticamente preveggente, è The Intensive Care Unit , “La terapia intensiva ” , ndr ). In quella storia i personaggi parlano attraverso gli schermi, il distanziamento sociale è la norma, tutti sono isolati. Ora questa condizione la stiamo vivendo davvero e non sappiamo quali effetti psicologici avrà sul lungo periodo».
Tra le strategie della cosiddetta Fase 2 c’è l’app in grado di tracciare la nostra salute, ma non manca di scatenare il dibattito, nelle democrazie occidentali, sulla deroga alla nostra privacy. Ci sono al momento, nel mondo tecnologico che lei ha esplorato, figure in grado di guidare un nuovo corso, di lavorare a un modello di sviluppo che contempli le questioni etiche?
«Da tutto questo credo che la Silicon Valley uscirà solo con maggiori guadagni. Quello del controllo sui nostri dati, come già accade a Hong Kong, Singapore o Corea del Sud, è proprio uno dei temi che ha subito un’accelerazione fortissima: un paio di mesi fa da noi sarebbe stato distopico, ora è accettabile. In questo dibattito l’Europa potrebbe giocare un ruolo. E sarebbe anche l’occasione per chiederci quale sia la nostra identità di europei. Invece, al momento, l’impressione è che non solo i cittadini siano separati, ma anche gli Stati».
Ci sono mancanze da parte dei leader politici?
«Uno dei problemi maggiori oggi, in gran parte del mondo, è il vuoto di leadership, anch’esso catastrofico. Pensiamo a Trump, a Boris Johnson: la loro visione arrogante, aggressiva, maschilista è molto pericolosa».
Chi ci salverà?
«I Paesi che stanno andando meglio hanno una struttura diversa. La Nuova Zelanda ad esempio, con una premier intelligente e sensibile come Jacinda Ardern, che ha affrontato la situazione con risolutezza. Nel libro cito Sarah Sharma, direttrice del McLuhan Centre for Culture and Technology all’Università di Toronto: lei contrappone a una visione patriarcale e maschilista del potere, che è quella di Trump e Johnson, ma anche quella di chi vuole colonizzare Marte e, in generale, quella dell’attuale capitalismo, una politica della cura e dell’attenzione. Che è appunto la linea di Ardern. Ovviamente non importa che a portarla avanti siano donne o uomini, ma sono convinto che, in generale, avere più donne in posizione di leadership potrebbe favorire un cambiamento nella giusta direzione. Oltre alla politica, un ruolo chiave avranno certamente gli scienziati, gli studiosi che troveranno un vaccino: saranno loro i nuovi eroi».
La scienza sta riacquistando centralità?
«Sì, e potrebbe essere un bene anche per l’emergenza climatica. Un ambito nel quale finora gli scienziati sono stati percepiti come un rumore di fondo».
Crede che d’ora in poi saranno più ascoltati?
«Ci spero. Il vuoto di Dublino in questi giorni mi ha ricordato la zona di alienazione di Chernobyl, dove sono andato per vedere con i miei occhi un posto dove l’apocalisse c’è stata davvero. Noi però sull’ambiente possiamo ancora cambiare rotta. Anche se è un tema complesso, che racchiude una delle contraddizioni più difficili da sciogliere: cambiare stile di vita per salvare la Terra è necessario ma bisogna crearne uno nuovo che risponda ai bisogni essenziali degli esseri umani. Proprio la situazione che viviamo oggi ce lo fa capire in modo ingigantito, paradossale. Siamo in casa, non prendiamo aerei, usiamo pochissimo l’auto, e tutto questo fa bene all’ambiente, ma non è una condizione sostenibile a lungo per l’individuo. Serve un nuovo equilibrio, e per costruirlo prestare attenzione agli scienziati è decisivo».
Il suo libro si apre e si chiude con un interrogativo che l’ha riguardata in prima persona: è eticamente giusto mettere al mondo un figlio se il futuro è così incerto?
«Può fare paura. Ma molti sono nati durante una guerra o una carestia. Alla fine la vita va avanti, trova il modo. Inoltre, il futuro spaventa, ma sono fiducioso che proprio quello che stiamo attraversando ci aiuterà a trovare un nuovo senso di ciò che è importante e a cercare di perseguirlo. Se l’alternativa fosse smettere tutti di avere figli, sarebbe in ogni caso un’apocalisse. Converrebbe allora, direttamente, fare i bagagli e andare su Marte».