Corriere della Sera, 26 aprile 2020
Biografia di Riccardo Zanotti raccontata da lui stesso
Riccardo Zanotti, lei e i suoi Pinguini, rivelazione di Sanremo, siete stati l’ultimo sorriso degli italiani prima del disastro.
«Un mio amico dice che “il sorriso è una parentesi se vedi bene”».
Lei è amico di Calcutta?
«Certo. Con Edoardo abbiamo anche suonato insieme. Sono abbastanza d’accordo con lui: tante volte i periodi di estrema felicità sono sempre seguiti da periodi di malinconia e tristezza».
Lei è nato ad Alzano e vive ad Albino. La zona più colpita al mondo dalla pandemia. Come l’ha vissuta?
«A febbraio ci sentivamo sulla sommità dell’onda. Stavamo facendo surf. Sanremo, le radio. Giravamo l’Italia, trovavamo gli store pieni. Ringo Starr disco di platino, concerti sold-out. All’improvviso, è crollato tutto».
Addio tournée.
«Quando arrivò la notizia di Codogno ero a Pordenone, per le prove del tour. Una cosa sognata e preparata da mesi. Fu molto triste per tutti. Ci siamo trovati con i tecnici e gli organizzatori in una gigantesca sala mensa, e ci siamo subito detti: qui il tour non si può fare».
E quando è arrivata la notizia del confinamento?
«Eravamo sul treno, al ritorno da Napoli, dove avevamo fatto uno spettacolo in Rai. Abbiamo realizzato che cominciava un periodo lungo e difficile, per noi e per l’Italia».
E ha deciso di tornare a casa, in Val Seriana.
«Non è stata una decisione. Una decisione implica un dubbio; io non ho pensato neanche per un attimo di andare da un’altra parte. Volevo e dovevo tornare qui, tra la mia gente. Non lo dico dall’alto della spocchia per quel minimo di fama che ho raggiunto. Riesco a comunicare meglio se dico che sono qui, nell’epicentro del dolore, e tengo duro per me e per gli altri».
Lei è il primo cantante che ha dedicato una canzone a Bergamo.
«L’ho scritta sette mesi fa, per motivi diversi: volevo difendere Bergamo dai pregiudizi di chi la vorrebbe razzista, bigotta, chiusa. Ora quella canzone ha assunto un significato nuovo. L’arte del resto è liquida, prende la forma del contenitore in cui la metti, cambia con il cambiare del momento. L’arte è lì per riempirti. Io non sono nessuno, ma credo che per chi mi segue sia di conforto far sapere che sono qui, con loro, e vivo come loro».
È stata una tragedia. Una generazione quasi cancellata.
«Tutte le persone che vivono nel Bergamasco sono state in qualche modo colpite, ognuno di noi ha perso almeno una persona cara. Non ho avuto lutti in famiglia, ma nella comunità; ho avuto persone che conoscevo che non ce l’hanno fatta. C’è una tristezza incredibile che pervade la valle. Io poi sono molto legato ad Alzano, ci sono nato, ho fatto lì il liceo scientifico, l’Edoardo Amaldi, ho convissuto con una ragazza di Alzano. Ma il male ha colpito ovunque, a Pesaro è morto Mirko Bertuccioli dei Camillas, un musicista geniale. E aveva solo 46 anni».
Bisognava fare la zona rossa?
«Non tocca a me dirlo. Ma è una domanda che ci dobbiamo porre. Qualcuno dovrà indagare: magistrati, tecnici, analisti forensi, epidemiologi. Spero solo che non ci sia stata malafede».
Lei ha ancora i nonni?
«Sì. Entrambe le coppie erano all’estero e sono tornate subito. I nonni materni, Bepi e Miriam, erano a Gerusalemme: pellegrinaggio, ritiro spirituale, Santo Sepolcro. I nonni paterni, Dante e Rita, erano a Fuerteventura, sul mare delle Canarie. Io partecipo un po’ di entrambe le loro nature».
Cos’hanno fatto i nonni?
«I muratori, come tantissimi bergamaschi. Nonna Rita invece ha finito l’avviamento professionale e ha fatto la cassiera, prima di dedicarsi ai nipoti. Nonna Miriam ha lavorato tutta la vita in una casa di riposo, qui ad Albino. Anche da pensionata continuava ad andarci, come volontaria. Ha sofferto moltissimo in questi giorni a stare senza i suoi vecchietti».
E i bisnonni?
«Ho conosciuto due bisnonne, ero molto legato a loro. Entrambe erano operaie tessili, insomma lavoravano in filanda. Una la chiamavano Murì, il suo vero nome era Maria e qualcosa, non si è mai saputo cosa. L’altra si chiamava Ines, e ha vissuto tutta la vita in quarantena: era di Desenzano sul Serio, una frazione di Albino, e già non si fidava ad andare in paese. Fece il viaggio di nozze a Bergamo, in carrozza, e la trovò una città di perdizione. Dopo due giorni tornò al lavoro».
È stato detto che il fortissimo attaccamento al lavoro può essere stata una delle cause del focolaio.
«Qui c’è la cultura del lavoro, come anche a Brescia, Lecco, Milano. Non sono nessuno per poter dire se è giusto o sbagliato. Forse questa crisi è il primo forte scossone inflitto alla nostra idea di modernità. Lo diceva il sindaco Sala a Formigli l’altra sera: dovremo ripensare tutto, gli orari dei negozi, i ritmi di vita, l’idea stessa di lavoro, di società».
Cosa fa suo padre?
«Indovini».
Pure lui il muratore?
«Ovviamente. Si chiama Roberto. Mamma Cristina invece è maestra. Adora il suo lavoro, sta cercando di farlo anche in questi giorni: ma tenere lezione online ai bambini è difficilissimo, per uno che ti segue ce ne sono due che mettono mano alla Playstation. Mamma ci tiene da morire, ogni giorno se ne inventa una per interessarli».
Lei con chi vive la quarantena?
«Da solo. Non sono fidanzato».
Come la vive?
«La solitudine mi ha fatto rivalutare tante cose. Ho ripreso in mano dischi che non ascoltavo da 15 anni. L’atmosfera minimalista mi ha fatto venire voglia di cose che mi facessero evadere: tipo A Night at the Opera dei Queen, un disco orchestrale, operistico appunto. Ho cercato la complessità, ho rivisto la saga del Padrino, che è infinitamente più ricca di dettagli delle serie tv che vanno adesso. E ho letto Sapiens. Da animali a dei di Harari, un libro straordinario».
È vero che lei è cresciuto all’oratorio?
«Sì. Da noi l’oratorio è un’istituzione quasi laica: si va al catechismo, poi si gioca a pallone. Ci andavano tutti i ragazzi, anche i musulmani: ridevano e scherzavano con il don. E intanto crescevamo insieme».
Quale don?
«Tantissimi: don Alessandro, don Roberto, don Livio…Oltre che di muratori, Bergamo è una fabbrica di preti. Venticinque sono morti per il coronavirus».
E la musica?
«Ho sempre suonato la chitarra. A 11 anni sognavo di gettarmi sul pubblico, come Jim Morrison. Una volta provai, ma gli spettatori erano seduti sulle seggioline di plastica: li ho quasi uccisi. Ancora me lo rinfacciano».
Tifa per l’Atalanta?
«No, per l’Inter. Però l’Atalanta stava giocando talmente bene che questo stop è una sofferenza. Vado matto per il calcio, ma è giusto fermarsi. La salute viene prima. Non credo che il campionato arriverà alla fine».
Milano non le piace?
«Mi piace, ci lavoro, ma faccio avanti e indietro, a volte in treno a volte in macchina. Credo nella geografia dell’anima: in alcuni posti stai meglio che in altri. Sono le radici che fanno vivere un albero, e le radici da cui traggo il nutrimento sono qui. Sento che qui è casa. Quando dalla finestra guardo le mie montagne, sto bene, anche se non è lo skyline di CityLife. Peraltro bellissimo».
Ha vissuto a Londra?
«Facevo il barista, prima da Costa poi al bar della City University. Mi davano sempre il turno di chiusura, il più scomodo perché bisogna pulire, e poi mi fermavo a parlare con gli studenti. Così mi è venuta voglia di studiare anch’io. Musica. Mi sono laureato alla Westminster. Ogni due o tre mesi torno a Londra. Anche se non mi sono mai sentito solo e alienato, neppure in questi giorni, come in mezzo alla folla di Oxford Street».
La sua ultima canzone si chiama «Ridere», racconta la strana sensazione di incontrare per strada la ragazza con cui si è condiviso tutto e salutarsi appena. La clip è fatta con tante piccole clip mandate dai fan. Non ha paura che oggi ridere sia fuori luogo?
«Si chiama call to action: dici alla tua gente di mandarti un contenuto. Hanno risposto in migliaia. Un conto è il divertimento, un altro è il divertissement. Sono entrambi importanti, ma diversi. Il mero divertimento è leggerezza. Non voglio essere quello che affronta le cose con leggerezza. In ogni canzone cerco di trasmettere qualcosa. Il divertissement è quando riconosci che c’è un problema, un’emergenza, un incubo, e in alcuni momenti cerchi di distrarti. Non ci si può distrarre da qualcosa di cui non ti rendi conto; ti distrai da una cosa di cui sei molto cosciente».
Come ripartiremo?
«Ripartiremo come nella canzone di una band che amo, Il biglietto per l’inferno; il batterista è di Bondo, una frazione di Albino. Si intitola Il tempo della semina. Oltre la quarantena, la vita aspetta solo di essere vissuta. Faremo germinare i semi che in questi giorni sono cresciuti dentro di noi. Usciremo di casa per vederli sbocciare».
E i concerti quando ripartiranno?
«Temo che quest’estate non ne vedremo molti. Si parla di concerti drive-in, ma la vedo dura; più facile in streaming. Noi proveremo a tornare nei palazzetti in autunno. Ma dovranno essere medici ed epidemiologi a decidere».