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 2020  aprile 26 Domenica calendario

Intervista all’artista Victoire Bourgois

Victoire Bourgois è nata a Parigi, in Francia, nel 1987. È figlia degli editori Christian e Dominique Bourgois. È un’artista e sta studiando per il suo Master of Fine Arts alla New York University.
Com’è stato lasciare New York per sfuggire al coronavirus?
«All’inizio non volevo andarmene. Ma giorno dopo giorno, la tensione diventava sempre più alta, non uscivamo di casa. Ho avuto l’opportunità di andare nel Maine, per stare lì con la famiglia. Quando ho lasciato New York a fine marzo, non c’era nessuno sulla strada. Ora è un incubo. Ci sono camion refrigerati parcheggiati al di fuori degli ospedali che fungono da obitori. È orribile».
Aveva appena aperto la sua prima personale, "Stream of Consciousness" alla Yoshii Gallery. Com’era andata?
«È stato un grande successo. Alla presentazione c’erano tutti i miei amici e molte persone del mondo dell’arte. Sembrano cose accadute in un mondo lontano, la realtà è così diversa. Ho una vera mostra in uno spazio reale, ma i visitatori possono solo vederla solo con l’immaginazione. È molto triste».
Un’opera esposta?
«The Glass River è il letto di un fiume, realizzato con oltre 100 pietre che ho scolpito nel vetro. Quando il vetro è fuso, liquido, malleabile, gli do forme diverse, modello pezzi di roccia, ghiaia e pietra, uno per uno. Il fiume di vetro trasparente è immerso nella luce del sole, la catena di vetro getta un’ombra morbida ... E ora nessuno può vederlo».
Cosa pensa del fatto che la città non fosse preparata per questa pandemia?
«Gli Stati Uniti avrebbero potuto investire un miliardo o due nella ricerca medica, anziché spendere trilioni di dollari nel tentativo di salvare questa economia. Forse uno dei motivi per cui non è stato fatto è perché le persone non potevano crederci. Sembrava un film horror, di fantascienza. Ora è la nostra realtà. Milioni di persone hanno perso il lavoro».
Dato che è costretta a rimanere in quarantena nel Maine, cosa sta facendo?
« È difficile lavorare, ma tornerò a farlo. La cosa buona è che posso disegnare ovunque e sto insegnando a disegnare online. All’inizio ho pensato che fosse impossibile, ma in realtà funziona abbastanza bene. Non può sostituire l’insegnamento di persona, ma al momento, è tutto ciò che abbiamo».
Com’è l’umore dei suoi studenti?
«Sono molto preoccupati e spaventati. È una situazione che nessuno ha mai visto prima. Ma la maggior parte di loro vede il disegno come una sorta di attività meditativa, il che gli dà un po ’di conforto».
Come riuscirà a ricominciare a lavorare, anche se il mondo sta collassando intorno a lei?
«Inizierò dove posso e sarà con cose semplici. Come artista, quando c’è una crisi così incombente che ti circonda, inizi con ciò che ti è più vicino. Inizi con la tua vita interiore e poi dall’immediatezza; gli oggetti, la natura, le persone intorno a te. Ad esempio, adoro il lavoro di Giorgio Morandi. Sono molto attratta dalla sua attenta osservazione di oggetti semplici. C’è umiltà, c’è modestia lì, perché ripete le stesse composizioni ancora e ancora trasformandole in queste forme quasi astratte con la sua incredibile tavolozza».
Riesce a concentrarsi anche sulla lettura?
«Un pochino, si. Adoro leggere. Nella mia mente creo mondi dai personaggi, come apparirebbero o come sarebbero i paesaggi. Guerra e pace è il mio libro preferito. Stavo proprio seguendo il passaggio in cui le truppe napoleoniche stanno invadendo Mosca e le famiglie stanno lasciando la città, vuota e poi devastata da un incendio. Lo stavo leggendo a New York, poco prima di partire, e improvvisamente ha assunto un altro significato per me. Succede con le opere d’arte in tempi di crisi. Ho letto alcune poesie di Ann Carson e Adrienne Rich, che ora hanno una nuova vita».
Suo padre Christian Bourgois era un noto editore. Ha incontrato degli scrittori famosi?
«Ho avuto un rapporto meraviglioso con Toni Morrison, eravamo come una famiglia. Da bambina ho incontrato molti scrittori famosi, ma non avevo idea di cosa significasse famoso, nè chi fossero e quale fosse il loro lavoro. Li conoscevo come persone. I miei genitori hanno pubblicato Susan Sontag, era molto gentile con me e mi chiedeva cosa stavo leggendo e parlavamo di libri per bambini. Ricordo Antonio Tabucchi, Jim Harrison, Thomas McGuane, Martin Suter e anche Linda Lé, Hanif Kureishi, Antonio Lobo Antunes, Enrique Villa Matas e Kirsty Gunn. Il romanzo di Kirsty Rain è il primo libro per adulti che ho letto, dovevo avere 10 anni. È un libro molto triste, sulla perdita, ma è davvero bello e l’ho letto tutto d’un fiato. I miei genitori hanno avuto la fortuna di pubblicare Alfred Brendel, il pianista che è anche un poeta. Eravamo molto vicini. Ha suonato il suo ultimo concerto a Parigi in onore della memoria di mio padre».
Perché non ha lavorato nell’editoria con i suoi genitori?
«Mio padre morì quando avevo vent’anni. La sua eredità era pesante da assumere e io avevo un’altra vocazione. Come ho detto, adoro i libri e adoro gli scrittori e adoro passare il tempo con loro, ma avevo bisogno di trovare un mio modo di essere creativa. Mi ci sono voluti alcuni anni per farlo».
Ha vissuto a Parigi, Oxford e Londra. Perché ha scelto New York?
«New York è il posto più creativo in cui si possa sognare di trovarsi, c’è questa straordinaria energia che si trova solo lì. Ci sono così tanti artisti e nuove gallerie e gallerie affermate, grandi musei e c’è così tanto da vedere e da imparare. New York in sé è una scuola d’arte».
Come si sente ora che non può essere lì?
«È molto strano essere così tagliati fuori da tutto. Ma come artista, trascorri molto tempo da solo nel tuo studio e devi dare vita tu a tutte le tue idee, non c’è nessuno che ti dica cosa fare. E così gli artisti dovrebbero essere preparati per questo periodo di isolamento. Ma la paura è troppa. L’ansia è troppa, quindi dobbiamo elaborarla».
Molti dicono che le cose non potranno mai più essere le stesse. Cosa ne pensa?
«Penso a ciò che i miei nonni ebrei hanno vissuto durante la guerra, e poi negli Anni 50 si sono sposati, hanno avuto figli e hanno lavorato duramente per cancellare ciò che era accaduto a loro, non parlandone ma, ovviamente pensandoci in ogni momento. Sono riusciti a fare una vita il più normale possibile. Se ce l’hanno fatta loro ce la possiamo fare anche noi». 
(Traduzione di Carla Reschia)