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 2020  aprile 26 Domenica calendario

Ritratto di Muhammad Ali

La prima volta che l’ho visto di persona ero seduto sugli spalti del Madison Square Garden e lui apparve a sorpresa all’interno dello stadio. Sul momento non mi resi conto di cosa stesse succedendo, ma appena lo riconobbi, fui travolto, come tutti, dall’emozione. Ero andato ad assistere con disincanto al match tra Tim Witherspoon e James Smith, due pugili troppo modesti per contendersi il titolo mondiale. Ma all’improvviso avvenne il miracolo: tutti gli spettatori si alzarono in piedi, e per un momento ci fu un silenzio pieno di commozione. Poi partì all’unisono un urlo fortissimo, quasi un canto, e tutto lo stadio, dalle ultime gradinate sino a bordo ring, cominciò a ritmare «Ali! Ali! Ali!!!». E poi più forte, sempre più forte, sembrava un’invocazione: «Ali! Ali! Ali!!!». Non esisteva più nient’altro in tutta l’arena, mentre Muhammad Ali avanzava lentamente verso il proprio posto: era già segnato dalla malattia e portava gli occhiali scuri. Ero commosso anch’io, e mi chiesi cosa rappresentasse «il più grande» per tutta quella gente con le lacrime agli occhi: uomini e donne di età, razze, tradizioni, religioni, e idee politiche diverse. Mi chiesi perché continuava a essere un mito al di là del suo inimitabile talento sul ring, la bellezza regale, il carisma sfacciato, le battute geniali, la riconquista per tre volte del titolo contro tutti i pronostici. 
Non sono mancati, nella sua vita, i gesti discutibili e anche sbagliati: eppure la leggenda era ed è rimasta intatta, perché quanto ha fatto di straordinario è riuscito a cancellare ogni ombra. Dopo quell’apparizione sono riuscito ad incontrarlo soltanto due volte, e ho avuto la conferma che ciò che lo rende irresistibile, differenziandolo da ogni altro campione, è che ha avuto il coraggio di dire no. Ali rifiutò di andare in Viet-Nam quando era all’apice della forma, e ritornò sul ring dopo quasi quattro anni di inattività: il mondo non ha potuto vederlo al suo meglio, ed è proprio questa privazione che ha trasformato l’uomo in mito. C’è un altro elemento che ne consacra la gloria: rinunciò al titolo di campione del mondo per una questione puramente ideale e rischiò anche la galera. Da grande uomo di spettacolo, Ali motivò l’obiezione di coscienza con una battuta folgorante: «Nessun Viet-Cong mi ha mai chiamato nigger» e venne odiato definitivamente da chi non aveva digerito che fosse diventato un Musulmano Nero rifiutando il «nome da schiavo Cassius Clay». Reagì con la stessa baldanza che mostrava sul ring: «Io sono l’America. Sono la parte che non riconoscete, ma dovete abituarvi. Nero, sicuro di me, superbo. Il mio nome, non il vostro, la mia religione, non la vostra, i miei obiettivi, non i vostri. Fate i conti con me». 
Quando riuscii a incontrarlo dopo una lunghissima trafila di richieste, gli chiesi di partecipare a una serie di interviste sulla fede: mi interessava sentire dalla sua voce la devozione per Allah. Aveva una sincera simpatia per gli italiani, grazie all’amicizia con Gianni Minà e il ricordo della medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi di Roma, ma disse di no, e finimmo per rievocare i match perfetti con Cleveland Williams e Zora Folley, i tre duelli con Joe Frazier e il capolavoro contro George Foreman. Gli chiesi anche di Ernie Terrell, che massacrò per quindici round con l’intenzione di non mandarlo al tappeto: lo voleva punire più a lungo possibile perché lo aveva chiamato Cassius Clay. Non riusciva a credere che una provocazione così squallida provenisse da un uomo di colore, e lo colpì con crudeltà, spesso con scorrettezza, ma mai con la forza necessaria per farlo cadere, urlandogli a ogni pugno «Come mi chiamo?». Quando me lo raccontò aveva la voce rallentata dal Parkinson e tremava tutto, ma la luce negli occhi. E aggiunse «sono il più grande, lo so da prima di diventarlo». Lo pensano tuttora i fan di ogni parte del mondo, come i nove figli, le quattro mogli ripetutamente tradite, e le infinite amanti, una delle quali rimase incinta quando aveva sedici anni. «Non contare i giorni», ha detto a ognuna di loro, «ma fa che i giorni contino». Lo vidi soltanto un’altra volta, per caso, in un albergo newyorkese, circondato dai fan. Aveva acceso da poco la torcia olimpica di Atlanta, commuovendo il mondo per come aveva combattuto il tremore per portare a termine il suo compito. Tutti gli facevano i complimenti e lui ringraziava, ma ogni gesto era faticoso e camminava con l’andatura caracollante alla quale era costretto dal morbo. Era straziante vedere ridotto in quel modo un uomo così bello e potente, ma non c’era nulla che ne sminuisse la dignità. Quando mi avvicinai mi sorrise, ma forse non mi riconobbe. Poi, improvvisamente, un signore gli porse una foto chiamandolo «Cassius»: era solo ignoranza, ma Ali si limitò a fulminarlo con lo sguardo e autografarla Muhammad Ali. 
Non è mai esistito un pugile come lui: per il modo in cui danzava sul ring, la velocità impressionante con cui colpiva e schivava, e l’abilità con cui metteva in soggezione gli avversari. «La prossima volta che sogni di battermi, fai meglio a svegliarti e chiedere scusa», disse al tedesco Karl Milderberger. Poi lo demolì sul ring e quando un giornalista gli diede dell’arrogante rispose «è difficile essere umili per un grande come me». Era un manipolatore straordinario, capace di scelte spregiudicate: il modo in cui insultava Frazier come «gorilla», era a dir poco razzista, come anche l’epiteto di «orribile nanerottolo» attribuito a Doug Jones. Per non parlare di Sonny Liston, «troppo brutto per essere un campione»: fa impressione sentire espressioni del genere da un uomo che ha sofferto il razzismo in prima persona ed è andato in televisione a cantare in maniera struggente «We came in chains». La rivincita con «l’orso cattivo», così chiamava Liston, rappresenta un’ombra sulla sua carriera leggendaria: se nel primo match Ali lo surclassò grazie alla velocità, nel secondo lo mise KO al primo round con un colpo non devastante. Forse Liston rimase al tappeto, consapevole di una nuova, umiliante sconfitta, o forse venne costretto a perdere dai criminali ai quali era legato. Non c’è stato un suo incontro che non abbia avuto una dimensione epica, già dal nome con cui erano presentati: la bella con Frazier è stata «The Thrilla in Manila» e il match con Foreman, tenuto nel cuore dell’Africa nera, «The Rumble in The Jungle». La riconquista del titolo a Kinshasa fu un capolavoro non solo pugilistico, ma di manipolazione: sedusse il pubblico facendosi passare per amico dell’Africa e dipinse il campione come un rozzo colonialista. 
Nonostante ciò i suoi cari, gli esperti e persino i secondi erano terrorizzati che sarebbe stato ucciso sul ring: Foreman era molto più giovane e potente. Prima di salire sul ring rispose a tutti «stasera danzeremo", poi incitò l’intero stadio a gridare «Boma Ye», uccidilo, e, dopo aver sconvolto il campione psicologicamente, lo distrusse anche pugilisticamente, rivelando impensabili doti di incassatore. Questi episodi non ne sminuiscono il genio: con «float like a butterfly sting like a bee», ripetuto all’infinito prima degli incontri, è stato un precursore del rap, e in un discorso agli studenti di Harvard ha inventato la poesia più breve della lingua inglese, «Me, We». Non è un caso che sia stato il soggetto di vari film, infiniti saggi e libri di autori quali David Remnick e Norman Mailer. La capacità di sopportare il dolore sbalordì il mondo anche nel primo match con Ken Norton, dove riuscì a resistere undici round con una mascella rotta, o negli scontri brutali con Ernie Shavers e con Leon Spinks, quando riconquistò il titolo per la terza volta. Gesti eroici che ha pagato molto caro, come anche il duplice ritorno sul ring, contro Larry Holmes e poi Trevor Berbick. Li sfidò contro il parere del medico Ferdie Pacheco, e accelerò l’aggressione del Parkinson sul suo corpo. Ma anche in quei due ultimi match, dove era l’ombra di se stesso, riaffiorava ogni tanto un barlume di grandezza: in altri tempi li avrebbe polverizzati senza problemi, e anche nella sconfitta rimaneva il più grande.