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 2020  aprile 26 Domenica calendario

Biografia di Edoardo Bennato raccontata da lui stesso

I dubbi e le domande gli assillano sempre la mente, e al contrario di quanto cantava ironicamente nel 1980 (“Io di risposte non ne ho. Io faccio solo rock’n’ roll”), Edoardo Bennato è pieno di risposte, non di certezze, ma di esperienze on the road, di parametri maturati sul campo, sulla pelle; di sintesi e incontri, e i suoi occhi hanno convogliato nella mente lezioni di vita “già da quando a 12 anni sono partito con i miei due fratelli per il Sudamerica”.
Da allora ha girato il mondo, conosciuto personaggi e protagonisti di inni e ideologie come Salvador Allende e Fidel Castro; suonato e bevuto con Fabrizo De André, condiviso emozioni con Maradona, sfatato il tabù dei concerti negli stadi e come sostengono alcuni suoi colleghi (da Vasco a Jovanotti e Alex Britti), ha incarnato per primo il ruolo della rockstar.
Venerdì sarà tra i protagonisti del concerto del Primo Maggio e ha appena inciso un brano (bellissimo) insieme a suo fratello Eugenio, La realtà non può essere questa; per loro la “Rete che diventa una prigione. La realtà è tutta l’illusione”, cantano.
Drastico.
Noi giochiamo con le parole, e dobbiamo sollecitare la poesia, non siamo ai trattati di sociologia; (ci pensa) la verità è che siamo anche avvantaggiati: partire a dodici anni per il Sudamerica è stata una grande fortuna.
Nata, come?
Suonavamo nei circoli cittadini, e lì ci vide un celebre armatore che ci regalò un viaggio in America: a 12 anni mi si è spalancata la realtà, aperti gli orizzonti; mi ritrovai pure ospite alla televisione venezuelana; vidi il mondo con i miei occhi, un mondo non filtrato dai libri, dai giornali o dalla televisione.
E…
È cambiata ogni prospettiva; grazie alla musica sono stato in Cile nel 1971, 1972 e 1973, ho rappresentato l’Italia al Festival di Vina del Mar, ho conosciuto Salvador Allende, una persona degna di assoluto rispetto, e lì ho visto la situazione politica peggiorare.
Com’era Allende?
Uno serio, attento, preparato, dotato di umanità e schiacciato nelle beghe politiche internazionali di allora. Mi colpì soprattutto la sua umiltà.
Allende ha segnato generazioni.
Come pure Fidel Castro, conosciuto grazie a un viaggio a Cuba con Gianni Minà: ho suonato per lui, poi sono tornato un’altra decina di volte.
Ha viaggiato molto.
È fondamentale, mi fa sentire e mi rende libero di vedere e capire, perché da sempre rifuggo le lotte tra Guelfi e Ghibellini, voglio restare al di sopra delle parti e ironizzare su tutto, compreso me stesso: Cantautore è un brano dedicato a me, al mio ruolo presunto, quello che gli altri mi hanno affibbiato.
Qual è il suo?
Di provocare, di creare poesie e buone vibrazioni; anche in questo momento surreale.
Prima lezione imparata nel viaggio a 12 anni.
Siamo partiti da Napoli in nave, poi tappa a Genova, Nizza, Barcellona, Stretto di Gibilterra, Canarie e infine l’America; al ritorno la stiva era piena di emigranti ammassati, persone di Guadalupa o Martinica che sbarcavano a Nizza per fermarsi in Francia o raggiungere l’Inghilterra; l’immagine di quella stiva mi torna utile anche oggi.
Jovanotti, Vasco, Britti, Finardi, Pelù e altri la considerano un maestro.
Sono contento, ma preferisco sempre il ruolo di alunno.
Chi è stato il suo maestro?
Woody Guthrie, uno che da giovane lavorava e cantava canzoni di protesta nei campi di cotone del sud degli Stati Uniti; però rifuggo dalla retorica, dal buonismo e dai luoghi comuni e nell’ultimo album, Pronti a salpare, parlo della necessità di noi privilegiati di capire che il benessere futuro non potrà prescindere dalla soluzione dei problemi del Terzo mondo.
Qui l’accuseranno di buonismo.
No, ribalto il discorso: è utilitarismo. E non mi faccio imbrigliare da certi stereotipi.
Chi e quante volte hanno provato a imbrigliarla?
Da subito, già dalla prima ora sono stato costretto a mostrarmi un pazzaglione: dopo aver pubblicato Non farti cadere le braccia, il direttore della Ricordi mi disse: “Hai una voce sgraziata e sgradevole, per questo i responsabili della Rai hanno deciso di non trasmettere i tuoi brani, quindi abbi pazienza e togliti dai piedi. Continua con l’università”.
E lei?
Giocai l’ultima carta: in Inghilterra mi ero costruito un tamburello a pedale, e un marchingegno per suonare l’armonica insieme alla chitarra in stile Bob Dylan; così scrissi delle canzoni punk, Salviamo il salvabile, Ma che bella città o Uno buono e mi misi a cantare in mezzo alla strada, davanti alla Rai: arrivarono i giornalisti e mi mandarono subito al festival di Civitanova Marche; (ride) Uno buono era uno sfottò dedicato all’allora presidente Leone, poi c’era un altro pezzo per il Papa (pausa).
A cosa pensa?
Che allora la censura era meno forte di oggi; oggi non potrei affrontare brani del genere.
Lei a un talent?
Mi avrebbero cacciato subito; comunque hanno sempre cercato di piegare il rock ai desideri dei potenti, ma il rock è libero anche rispetto alla musica leggera.
Quanto le è costata questa correttezza?
Chi vuol criticare lo fa a prescindere; nel 1973 ho partecipato ad alcune manifestazioni di Lotta Continua, o di Avanguardia, eppure mi arrivavano comunque le accuse da sinistra.
In quegli anni le proteste toccavano il palco.
Nel 1978 esistevano gli autoriduttori: queste persone si presentavano ai concerti, e se non gli permettevi di entrare gratis, spaccavano tutto; in quel periodo dovevamo difenderci e fortunatamente ero coperto dagli amici del cortile.
Cioè?
Avevo annusato l’aria e non mi circondavo da addetti ai lavori, da manager o discografici; avevo gli amici del cortile di Napoli, quasi tutti figli di operai e impiegati dell’Italsider di Bagnoli: un cortile cosmopolita, con famiglie di Piombino, delle Marche, del Veneto, e in quel contesto non accumulavamo frustrazioni tra Nord e Sud, ma vivevamo in una situazione smaliziata, senza atteggiamenti campanilistici.
Insomma…
Andavo in giro con loro: il ragazzo del piano di sotto, Aldo Foglia, da manager, mio fratello Eugenio come consigliere, l’altro fratello Giorgio era il tecnico del suono, Franco De Lucia della scala G il road manager.
Team su misura.
Imponevamo il costo dei biglietti a 1.000 lire quando c’era chi ne pretendeva 10.000; tutto questo piaceva molto a Fabrizio De André: l’ho sempre amato e stimato, anche lui non andava d’accordo con il mondo della musica e in Sardegna siamo stati parecchi giorni insieme.
L’immagine che ha dentro di De André…
Fabrizio lo ricordo seduto con nella mano sinistra un bicchiere di whisky e nella destra la sigaretta; poi ogni tanto posava il whisky e si accendeva un’altra sigaretta. E andava avanti così; era fortissimo, e si divertiva a stare con la nostra banda.
Giocavate a pallone?
(Scoppia a ridere) In questi giorni mi sto esercitando sul balcone con un pallone un po’ sgonfio: così tengo allenate le gambe, sono pur sempre un frontman.
19 luglio 1980: lei ha riempito San Siro.
In quell’anno abbiamo suonato in 15 stadi, un giorno sì e uno no…
Ha aperto un fronte.
In effetti il primo concerto è del 1978 al San Paolo di Napoli, un live arrivato dopo uno stop di parecchi anni, a causa degli incidenti del 1971 al Vigorelli di Milano.
Comunque lei ha rilanciato i live…
Ed ero preoccupato solo dei problemi tecnici, non mi convinceva la potenza del suono, tanto da dover minacciare i miei amici del cortile: o migliorate, o niente San Siro; alla fine chiamarono David Zard (celeberrimo organizzatore) che ci prestò l’attrezzatura adatta.
Pappalardo la ricorda alla fine dei Sessanta negli studi della “Numero Uno” di Battisti e Mogol.
Lucio spesso mi riportava a casa con il suo Duetto (spider Alfa Romeo) color rosso, e quando sconsolato gli manifestavo le mie preoccupazioni, spesso mi ripeteva: “Aoh, nun te preoccupa’, arriverà il tuo momento”. E a differenza della vulgata comune, era simpatico, con lui si stava bene.
Cos’è per lei Napoli?
Un accumulatore costante di energia e creatività; mi sento cittadino del mondo, ma soprattutto napoletano.
È amico di Maradona.
Sempre conosciuto grazie a Gianni (Minà) che è un giornalista integro moralmente, affidabile.
E…
Diego è animalesco, istintivo, capisce subito se il suo interlocutore è serio, e non si fida quasi di nessuno; poi è un uomo vulnerabile ma ha sempre mantenuto un sentimento forte nei confronti dei più deboli, dei diseredati: una volta al ristorante, prima di andare via, pretese di salutare i lavoratori della cucina, e a tutti loro consegnò delle banconote in mano. Una cifra assurda.
Lei e Diego parlavate la stessa lingua…
Sì, aveva solo il problema della dipendenza dalla droga, che per fortuna non mi ha mai toccato.
Mai?
Non fumo neanche le sigarette e non per moralismo.
Neanche uno spinello?
Purtroppo no, e offro pubblica ammenda: a 15 anni ho provato una sigaretta, non mi piaceva e un tizio mi spiegò: “Non ti preoccupare, ti ci abitui”; pensai: “Sto in un mondo di scemi, mi devo abituare a qualcosa di sgradevole?”.
Negli anni Settanta le droghe erano comuni.
Io giocavo a pallone; sono i luoghi comuni a pretendere e prescrivere l’uso di additivi per chi suona rock.
I suoi additivi?
Sono il calcio, lo sport e la femminilità. Sulla femminilità sono vulnerabile.
Cosa la seduce in una donna?
Il cervello, cosa trasmettono gli occhi.
E qui è stato diplomatico. Oltre?
Vita stretta e fianchi larghi.
Torniamo a Maradona.
Diego a Napoli era talmente osannato da non poter uscire ed è normale diventare schiavi di certe realtà; la stessa situazione è capitata a Elvis Presley, prigioniero del suo mito.
Le sue canzoni e quelle di Battisti sono da generazione protagoniste dei falò…
Ci sono anche i miei amici De Gregori, Zucchero, Britti e Jovanotti; (ci pensa) ecco, Lorenzo non è un moralista però neanche lui fuma, anzi si sveglia prima di me, e in quanto a sregolatezza è fuori dagli schemi soliti del rock.
Chi è dentro?
Be’, Vasco; una volta eravamo a Rimini, a un certo punto mi domanda: “Come fai a giocare a pallone, a correre tanto, a mantenere questo ritmo”. E io: “Guagliò, è così”, ma non sapevo cosa aggiungere; dopo poco scendiamo dalla macchina e vedo una bottiglia di Jack Daniels nella portiera.
Perfetto.
Ma a lui cosa vuoi dire? È talmente simpatico.
Alcol?
Qualcosa con gli amici; ma preferisco bere la mia centrifuga di melograno (e descrive la ricetta): almeno tre al giorno.
Alla faccia della colite.
Sono drogato di agrumi.
Si sente un sopravvissuto?
Tutti lo siamo; ma oggi avverto solo responsabilità verso mia figlia, mentre quando sono stato cacciato dalla Ricordi ero paradossalmente più leggero nell’affrontare la battaglia.
In questi anni, umanamente chi l’ha colpita?
Bob Dylan: l’ho incontrato più volte e lui è veramente il rock controcorrente e contro se stesso.
Perché?
Quando vai contro tutti, alla fine non sostieni più i tuoi interessi, hai chiunque contro e lui è da sempre oggetto di critiche; per questo ha maturato un atteggiamento diffidente sia nei confronti delle masse che verso gli addetti ai lavori.
Dylan dal vivo è impegnativo…
Adesso sì; per lui è come una forma di vendetta verso le persone: non concede nulla e quando sale sul palco lo fa con l’atteggiamento del “oggi decido io, non voi” (sospira). Lui è un punto di riferimento.
Chi altro lo è?
Potrei ascoltare John Lee Hooker 24 ore al giorno e senza stancarmi.
E di italiani?
A parte gli amici che ho citato? Nel mio cuore c’è Luigi Tenco: ha scritto capolavori come Lontano lontano e Io sono uno. Dovrebbe essere un riferimento per tutti noi, stesso giudizio lo do rispetto a Fabrizio De André.
De André spesso viene accusato di plagio.
Ognuno ha i suoi capi d’accusa da parte dei giornalisti.
Lei di cosa viene tacciato?
Di essere un qualunquista; di essere uno che non fa mai capire da che parte sta.
È scaramantico?
Non so se è scaramanzia, ma parecchi anni fa ho fatto un voto alla Madonna dell’Arco, un santuario napoletano: ci vado in pellegrinaggio ogni anno; ah, poi giro con un cornetto rosso e in tasca ho due monetine da dieci lire, come cantavo in Campi Flegrei “venti lire soltanto”; (ci pensa ancora) ne ho un’altra: salgo sul palco solo dal lato sinistro.
A Sanremo non è mai andato.
Il Festival è il circo rutilante della musica leggera, un incontro di impresari e manager dove la musica viene commercializzata; l’unica volta che ho calcato le assi di quel teatro è stato da ospite, e non è un caso se ho cantato Ciao amore ciao di Tenco.
Chi è lei?
Un pazzo squilibrato.
(Canta Bennato in “Sono solo canzonette”: “E nei sogni di bambino la chitarra era una spada. E chi non ci credeva era un pirata; e la voglia di cantare, e la voglia di volare forse mi è venuta proprio allora; forse è stata una pazzia però è l’unica maniera di dire sempre quello che mi va”).