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 2020  aprile 25 Sabato calendario

Intervista a Murakami Ryū

Murakami Ryū, il secondo Murakami più famoso del Giappone (il primo, anche lui scrittore, sapete chi è), è l’enfant terrible della letteratura giapponese. Nato nel ’52 a Nagasaki, ha esordito a 24 anni con Blu quasi trasparente, bestseller e vincitore di due premi importanti in patria, ma anche oggetto di polemiche per i contenuti crudi e le atmosfere decadenti. I sui romanzi esplorano temi come l’abuso di droghe, l’alienazione giovanile e l’omicidio, con incursioni nella politica giapponese e nell’autobiografia. Sul suo Audition è basato lo strepitoso film omonimo di Takashi Miike. L’occasione per il nostro dialogo è il ritorno del romanzo nelle librerie italiane.
Ryū, la lingua giapponese si affida molto alle suggestioni: la poesia classica tratta la parola come un punto di partenza, un trampolino di lancio sull’immaginario collettivo e letterario. È una lingua che sceglie un fraseggio scarno, e che, come nella pittura, predilige lo spazio bianco, il cosiddetto ma tra una frase e l’altra, creando spazi di immedesimazione e di intimità per chi legge. Vorrei sapere in che modo hai interiorizzato questa tradizione, se l’hai sposata o rifiutata: se la tua lingua così secca eppure sempre disposta a frantumarsi in uno sciame d’immagini è consapevolmente in linea con la letteratura giapponese oppure se è un’operazione diversa, di frattura totale con il passato. Dopotutto, la stessa lingua giapponese è nata da una frattura con una lingua più formale, il cinese.
«In effetti il giapponese, come si evince dai tanka e dagli haiku (due tipi di componimenti poetici giapponesi, n.d.r.), possiede una forte componente evocativa basata su una comprensione culturalmente codificata del testo, ma io quella componente non l’ho mai sposata. Uso le parole prestando sempre molta attenzione a comunicare esattamente ciò che voglio esprimere, e niente di più, evitando il rischio di incomprensioni». 
La società giapponese, a causa della fortissima competizione di stampo neoconfuciano che si instaura già da bambini, porta a forme peculiari di escapismo: alcuni adolescenti, i cosiddetti hikikomori, si chiudono in stanza, in una dimensione virtuale fatta di internet e videogiochi, per non affrontare più la realtà, e altri, sui trent’anni, si innamorano di fidanzate olografiche. Nel mio libro Bambini di ferro ho immaginato che il rifiuto del reale potesse diventare una prassi relazionale, ho immaginato cioè che i bambini giapponesi venissero affidati a madri robot. Mi interessa sapere in che modo ti poni rispetto a questo tema: come si pongono i personaggi di Blu quasi trasparente rispetto alle nuove forme di affettività che nascono non dall’incontro con la realtà ma al contrario dal suo rifiuto. Reiko, Lily, Okinawa, Ryū sono come incagliati tra identità intima e mondo esterno: la droga li separa dal mondo ma allo stesso tempo permette loro una nuova forma di esistenza.
«Forse, in passato, era impossibile rifiutare la realtà senza ricorrere all’uso di sostanze stupefacenti. Ma oggi, grazie al web, ci si può addirittura trasformare in un’altra persona, e procurarsi ogni tipo di oggetto su Amazon. Non c’è neanche bisogno di entrare in contatto diretto con un altro individuo, perché puoi farti lasciare la merce che hai acquistato in un punto di ritiro self-service, dove vuoi. E ormai si può lavorare anche restando a casa, con Internet. Però è evidente che in tutto questo si finisca col perdere qualcosa, e proprio di questo parlerò nel mio prossimo romanzo».
La metafora della pianta è ricorrente: a un certo punto Ryū, nel mezzo di un trip che lo sfinisce e lo mette in pericolo di vita, dice: «Ho la sensazione di essere diventato una pianta. Una pianta che all’ombra richiude le sue foglie di un colore grigiastro, che non dà ori ma libera semplicemente al vento le spore avvolte in lamenti morbidi, una pianta dimessa, come la felce» e subito dopo, in una carrellata di immagini semicoscienti che costituisce il passaggio più riuscito del romanzo, immagina una donna che cade da un tetto: anche i suoi capelli sono paragonati a una pianta. Vorrei che mi parlassi di questa metafora botanica, di come l’hai scelta per simboleggiare la vita inerme di chi non è in grado di agire in modo benefico su se stesso ma allo stesso tempo decide di resistere.
«Devo ammettere che non ci avevo mai pensato, la metafora della pianta mi sarà venuta spontanea. Però è vero, tendo a fare un uso metaforico delle piante, più che degli animali. Questi ultimi sono vivi, si muovono, e per questo non amo servirmene come metafore. Prediligo le cose che non si muovono, le cose quiete e silenziose, che non piangono né urlano».
Sei stato accostato a Ishihara Shintarō e a Dazai Osamu. Qual è il tuo rapporto con la letteratura giapponese? Chi sono i tuoi modelli? E con la letteratura europea? Leggi letteratura italiana?
«Spetta ai critici paragonarmi a Dazai Osamu e ad altri scrittori giapponesi, è il loro lavoro. E non credo di avere modelli, né di essermi ispirato a qualche autore in particolare. Per quanto riguarda la letteratura europea, ho letto per esempio molti autori francesi tradotti in giapponese: Jean Genet, Louis-Ferdinand Céline e altri. Di italiani ho letto qualcosa di Calvino».
Nel teatro tradizionale giapponese, il conflitto insanabile tra sentimenti e dovere verso la società era superato con il gesto del suicidio. Nel microcosmo di Blu quasi trasparente, sembra essere invece superato con la droga: un annullamento di sé e del mondo, dunque un suicidio metaforico. Cosa ne pensi? Qual è il tuo rapporto con il teatro giapponese?
«Apprezzo il kabuki, ma non ho un rapporto molto diretto con il teatro tradizionale giapponese. Sì, con la droga si può annullare se stessi, la realtà, il mondo circostante, ma forse è qualcosa che riguarda più i giovani e la loro smania di cercare sempre qualcos’altro, come fanno i protagonisti di Blu quasi trasparente. Io ormai ho sessantotto anni e scrivo solo di me stesso e del mondo che mi sta intorno, non ho più bisogno di superare e annullare alcunché».
Sei uno scrittore-giardiniere che segue il flusso della scrittura e poi pota l’eccesso oppure uno scrittore-chirurgo che opera sulle frasi parola per parola, senza mai far scivolare immagini che non ha pensato accuratamente?
«Dipende, direi che sono entrambi, scrittore-giardiniere e scrittore-chirurgo…».
Cosa provi quando guardi questo tuo romanzo scritto tanti anni fa? Che tipo di affetto ti lega a un libro che hai scritto in una fase così lontana della tua vita?
«È stato il mio romanzo d’esordio, quello che ha venduto tantissimo, è uno di quei libri che si possono scrivere soltanto da giovani. Non ripenso quasi mai ai miei romanzi, ma sono contento di aver scritto questo, e di averlo scritto quando avevo appena vent’anni».