Tuttolibri, 25 aprile 2020
Intervista a Karl Ove Knausgård
Prima di incontrare Karl Ove Knausgård in un caffè di Blackheath – il sobborgo a Londra Sud dove vive adesso con la terza moglie - mi aspettavo l’autore mitologico di cui si favoleggiava: un fascinoso e selvaggio vichingo con barba e capelli lunghi, occhi azzurrissimi e viso scavato dalle rughe profonde della vita. Uno che lo guardi e vedi i boschi e i fiordi, i silenzi e il verde, le casette, i suicidi, la neve e il rock scandinavo. Lo pensavo anche scontroso, poco socievole, contorto e introverso, come l’io narrante e personaggio della sua autobiografia, che lo ha reso un oggetto di culto e di venerazione da parte di frotte di fan letterari un po’ ovunque.
Dal vivo è piuttosto diverso dall’idea iniziale. Timido, ma non selvaggio; riservato, più che scontroso. Intanto si è tagliato i capelli e anche la barba. E non è per fare troppo i pop, ma perché l’aspetto fisico – in questo caso - è importante.
Il Karl Ove che ho davanti infatti non sembra più quell’uomo disperato di nove anni fa, quando dal 2009 al 2011 ha scritto forsennatamente le oltre 3.500 pagine della mostruosa autobiografia La mia battaglia.
«Il fatto è», dice, «che ero lì, all’età di 40 anni. Avevo una moglie bellissima, tre bellissimi bambini, li adoravo tutti. Ma non ero veramente felice. Non è necessariamente la maledizione dello scrittore, questo. Ma forse è la maledizione dello scrittore di esserne consapevole, chiedersi: perché tutto questo, tutto quello che ho, non è abbastanza? È proprio quello che ho cercato, in tutta questa cosa, una risposta a questa domanda».
Adesso i tormenti sembrano aver lasciato spazio, anche fisicamente, a un nordico padre di famiglia di mezza età, brizzolato, con gli occhi stanchi, che lavora da casa e si affanna tra spesa, accompagnamenti e passeggini. Infatti, ha spostato l’appuntamento per via dei bambini
«Ne ho sette in casa – dice – Due arrivano con la mia nuova moglie, la terza. L’ultima ha un anno». Vivono tutti con lui. Vanja, Heidi e John, i tre figli della seconda moglie Linda, sono ormai adolescenti, e al lettore pare di conoscerli perfettamente, perché sono personaggi involontari del libro. A tutti loro, con parole struggenti è dedicata l’opera monumentale: «Non mi perdonerò mai per quello a cui li ho esposti, eppure l’ho fatto, e devo convivere con questa realtà». Capisco che c’è un altro figlio di cinque anni, ma non oso chiedere di più, perché è chiaro che la famiglia, dopo tutto quello che è successo, la vuole tenere fuori. Anche se è difficile, dopo che per sei volumi ne hai descritto la vita quotidiana in ogni minimo dettaglio.
«La mia battaglia è finita», sembra dire il suo golfino di cachemire grigio, adesso, dopo aver guardato direttamente dentro l’essenza stessa dell’esistenza umana ed aver ferito tutti quelli che gli stavano intorno e che sono finiti nel suo racconto, ha trovato la sua dimensione in una nuova famiglia, in una nuova casa e addirittura in un nuovo paese.
Nelle 1.270 pagine di Fine, il sesto e conclusivo volume di quello che chiama «il progetto», l’autore racconta proprio il periodo turbolento che precede la pubblicazione del primo: La morte del padre. Lo zio paterno Gunnar ha letto il manoscritto, lo accusa di aver scritto solo falsità e minaccia di portarlo in tribunale. Per andare in stampa, Karl Ove deve cambiare tutti i nomi e togliere quello del genitore, che per tutto il libro sarà infatti «mio padre». Nonostante ciò, si scatena il putiferio, complici giornalisti senza scrupoli e la morbosa curiosità dei lettori.
Forse anche per questo il libro diventa subito un caso e il ciclo, solo in Norvegia, arriva a vendere mezzo milione di copie in un paese di 5 milioni di abitanti.
In Fine Knausgård fa i conti in maniera brutale con se stesso, e non risparmia nessuno: la separazione dei genitori, il tradimento della prima moglie, il tentato suicidio della seconda e i suoi problemi mentali, l’alcolismo del padre e la paura di diventare un alcolista lui stesso.
Prima del 2009, era solo un rispettato romanziere norvegese, autore del primo romanzo d’esordio a vincere il premio della critica e uno libro strano e molto ammirato sugli angeli. Dopo la pubblicazione del primo tomo del ciclo, diventa un personaggio pubblico, il selvaggio della scrittura, amato o detestato e il racconto di quanto accade in quel periodo diventa a sua volta oggetto di analisi, in un cortocircuito metaletterario per cui nella parte finale del progetto si racconta la parte iniziale del progetto stesso e le profonde ripercussioni e riflessioni che ha provocato, con due grosse sezioni, una sul trauma di aver dovuto cancellare il nome del genitore. E l’altra su Hitler e sulla scelta di intitolare l’opera La mia battaglia. Inoltre, sia la prima che la seconda moglie scrivono a loro volta dei libri dove raccontano la propria verità, come se volessero uscire dalla finzione e tornare a essere personaggi reali. Cerchiamo di mettere un po’ di ordine.
Alla luce del sesto volume, dove è il limite tra finzione letteraria e realtà?
«Io volevo scrivere della morte di mio padre e questo ho fatto. Mio zio mi ha dato una lista di cose da cambiare. È rimasto molto colpito da quello che io ho scritto. Il lato paterno della famiglia non mi parla più da allora. Ma il mio non è un memoir. Neppure una autofiction, in Norvegia è un termine che non si usa neppure. Se avessi voluto scrivere di me, scrivevo un’altra cosa, del tipo: sono nato nel tal posto il tal giorno ...».
Lo zio Gunnar ha contestato proprio il ritratto che fai di tuo padre, un ubriacone grossolano, gonfio e sporco che era tornato da due anni a vivere con la madre ed è morto in uno squallore indicibile: bottiglie vuote, vestiti sporchi, merda sul divano del soggiorno, una ferita in testa e sangue ovunque. Per loro, la famiglia di tuo padre, invece era uno stimato insegnante. Qui la verità è importante, non è solo un racconto iperrealistico in forma di romanzo.
«La mia è fiction, quindi io ho scritto un romanzo. I personaggi sono reali, ma io ho fatto letteratura. Anche Gunnar non è il suo vero nome. E i nomi sono importanti perché cambiare il nome a una persona la fa diventare un’altra persona. In questo caso mio padre è un personaggio del libro ma è stato anche una persona vera. E le due persone sono la stessa persona, ma anche non lo sono. Ogni scrittore cerca di scrivere di quello che crede sia la sua realtà. Questo è il motivo per cui scrivi».
Proprio perché in questo ultimo volume metti molti puntini sulle "i", anche i dettagli sono importanti. In "Fine" ti difendi dalle accuse di tuo zio di aver scritto il falso. Racconti ancora di come tu e tuo fratello avete trascorso una settimana a pulire la casa di tua nonna, anche lei incontinente, con candeggina e Ajax e i guanti di gomma.
«Sono uno scrittore molto visuale. Mentre scrivo io vedo le cose, i personaggi e i paesaggi. Se io scrivo che nevicava o che in quel momento passava una macchina, non è importante che proprio in quel momento nevicasse o passasse una macchina, ma che la sensazione che voglio ricreare sia quella che io ricordo».
Istintivamente gli guardo le mani. Ancora una volta, la fisicità è importante, parlando con quest’uomo. Le mani in genere non mentono. Le sue sono rosse e screpolate, piene di taglietti intorno alle unghie. Le mani di uno che cucina e pulisce la casa. Questo non significa che veramente abbia pulito la casa del padre. Ma conferma la fragorosa potenza del suo racconto selvaggio, quello di un artista ossessionato dai suoi fantasmi di scrittore, che lotta con il quotidiano per ritagliarsi spazi per scrivere, ma che si ritrova sempre a fare i conti con le vite degli altri che lo circondano e quindi anche a pulire appartamenti, fare la spesa, preparare da mangiare, portare i bambini all’asilo, riprenderli, portarli al parco, riportarli a casa, lavarli, metterli in pigiama, piazzarli davanti a un film, comprare i dolcetti del fine settimana, pulire il giardino, tagliare l’erba, imbiancare, montare mobili dell’Ikea. È parte della potenza di questo racconto in presa diretta, dove ogni singolo dettaglio diventa importante. Ed è anzi nei dettagli, nell’idea stessa di poter raccontare una vita senza filtri, attraverso l’ovvietà del quotidiano, che si gioca tutta la sfida. E qui è fondamentale.
Perché questo realismo minuzioso, questi dettagli apparentemente ininfluenti, queste irrilevanti incombenze?
«Siccome sono uno molto intuitivo, la mia scrittura fluisce senza un piano e senza editing. Quando ho iniziato volevo scrivere solo di mio padre».
Poi è diventata una sorta di lunghissima seduta di autoanalisi...
«In un certo senso sì, ma anche no. Dovevano essere dodici volumi, uno per ogni mese. Poi sono diventati quello che vedete, ma lo ripeto: io ho scritto un romanzo e ho usato gli strumenti del romanzo per raccontare una storia dove il soggetto è la mia vita. E l’ho fatto scrivendo solo la verità, nessun artificio, nessuna mediazione».
Quello che hai scritto ha ferito entrambe le tue ex mogli. È stato molto pesante per tutte le persone coinvolte, perché loro malgrado si sono trovate dentro "il progetto", con tutti i loro difetti spiattellati in pubblico. Lo rifaresti?
«No. Non farei più niente del genere. Ma quando avevo iniziato, ero io e il mio computer, non pensavo ad altro. Forse ho venduto l’anima al diavolo. E comunque non pensavo neppure che l’avrebbero pubblicato, non volevo neppure farlo leggere e quando è uscito avevano stampato poche copie. Io sapevo solo che dovevo scriverlo».
Ne valeva la pena?
«Non sono in grado di rispondere a questa domanda. Ho esagerato? Non lo so. Io ho fatto una cosa con il cuore puro. Non volevo ferire nessuno. Questo non era un progetto di odio. E mi suona strano parlarne ora, che sono passati nove anni. Mi sembra tutto così lontano. È curioso che più le cose sono lontane, più sembrano vere. Per dire, non ho avuto problemi con i volumi dove racconto la mia infanzia e l’adolescenza. Il tempo aiuta a decantare i ricordi, a rendere tutto più chiaro».
Al centro di "Fine" c’è un saggio lungo circa 400 pagine in cui parla del killer di Utoya e del "Mein Kampf", l’autobiografia di Hitler con cui ha condiviso il titolo e che non aveva mai letto prima. Perché?
«Perché mi sono sentito obbligato a leggerlo. Era un libro che mi spaventava e qui ho capito che mi interessava capire la necessità etica di trattarlo come un essere umano e capire come è possibile che abbia influenzato così tante persone. Lo leggi e capisci in prima persona tutto il suo narcisismo e non capisco come si possa diventare nazista leggendo quel libro».
Adesso sei nel Pantheon degli scrittori. Cosa ha significato il successo? Un successo ottenuto a caro prezzo, ti è stato rinfacciato.
«La cosa buona del successo è che ti apre molte porte. Tipo che il New York Times mi commissiona grandi reportage. O che mi hanno chiamato per curare progetti bellissimi, come una grande mostra di Munch al Norvegian Museum. È stato un vero sogno per me, che ho studiato arte e sono un grande appassionato».
Hai dovuto lottare per diventare scrittore. Cosa avresti fatto sennò?
«Come racconto, ho fatto fatica. Il mio primo romanzo di trecento pagine è finito nel cestino. Avevo 19 anni. Il secondo, dopo aver riscritto l’inizio un sacco di volte, ha fatto la stessa fine. Poi ho buttato anche un sacco di racconti. Poi è andata come è andata. Ma se non ci fossi riuscito, avrei fatto l’insegnante di lettere. O l’artista. O comunque avrei continuato a scrivere recensioni, lavorare per magazine letterari, come facevo da ragazzo».
Hai anche tradotto la Bibbia.
«Sì. Ma non c’è da stupirsi. È un libro bellissimo e l’edizione norvegese ufficiale sentiva il peso del tempo. Era un testo vecchio, con molte incrostazioni. Mi hanno chiesto di fare parte di un team. Ogni gruppo di quattro persone traduceva un libro, con l’aiuto di un teologo. Il compito era di mantenere alcuni elementi tradizionali, ma noi scrittori dovevamo riportare in vita il testo, nella sua versione originale, più potente, semplice e immediata».
Hai capito qual è il segreto del tuo successo? Perché i lettori sono rimasti ipnotizzati da oltre 3.500 pagine in cui scrivi, cito: "aprii il piccolo ripostiglio, dove c’era il tosaerba. Presi il rotolo di cavo, infilai un’estremità nella presa e l’altra nel tosaerba, lo sollevai e mi misi all’opera"?
«Non ne ho idea. È ancora un mistero per me. Io ho sempre pensato di aver scritto una cosa noiosa, che interessava solo a me. Per in questi anni ho incontrato un sacco di lettori e sempre succedeva la stessa cosa: mi citavano due o tre frasi del libro e poi iniziavano a parlare di loro stessi. Perché alla fine io parlo di cose ordinarie, di fatti che capitano a tutti. Anche se non tutti hanno avuto un padre alcolista. Però casomai hanno in famiglia una persona con problemi di depressione, con problemi psicologici».
La tua opera monumentale è stata paragonata a una serie tv. Si va avanti perché si vuole sapere cosa succede nella puntata successiva. Lo dice anche Zadie Smith, che è una tua fan.
«Non so come sono le serie tv, perché non le guardo. Come sa chi mi legge, sono uno che tende a diventare dipendente. Quindi niente serie tv né videogiochi, so che non mi staccherei più. E il tempo è poco. Accompagnamento all’asilo, lavoro dalle 9.30 alle 3. Poi riprendo dall’asilo. Ancora lavoro dalle 3.30 alle 5».
E poi?
«Poi devo fare la spesa e cucinare per tutti. E ora infatti devo andare, che sono già in ritardo».