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 2020  aprile 25 Sabato calendario

Intervista a Renzo Piano

Oggi, dalla sua casa di Parigi, da cui non è più uscito dall’8 marzo, l’architetto e senatore a vita Renzo Piano, 82 anni, sarà fra i tanti che si collegheranno al sito www.25aprile2020.it per seguire la celebrazione virtuale della Liberazione, promossa da Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, che verrà aperta dal canto dell’Inno di Mameli. All’evento, di cui lo stesso Piano è uno dei sostenitori, si accompagna una raccolta di fondi a sostegno della Caritas e della Croce Rossa italiane.
Architetto, nell’appello a sostegno dell’iniziativa, che lei ha firmato con centinaia di protagonisti del mondo della cultura, dello sport e dello spettacolo, si sostiene che «passata questa tempesta» ci si dovrà impegnare «a ricostruire un mondo più giusto, più equo, più sostenibile». Che significato ha per lei il 25 aprile?
«Io sono uno dei figli di quel temporale che è stata la guerra. Sono nato qualche anno prima che scoppiasse, l’ho vissuta da bambino. Andando indietro con i ricordi, credo che a quel tempo fossimo sfollati con la famiglia nel Basso Piemonte. Il 25 aprile, la Liberazione e gli anni seguenti hanno segnato per me il passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, l’età in cui cominci a capire le cose, e mi ha lasciato tracce profondissime. Un bambino di quell’età si accorge dei cambiamenti: ogni giorno il cibo diventa un po’ più buono, la mamma un po’ più sorridente, il papà un po’ più sereno, le strade un po’ più pulite, le rovine e i segni della guerra cominciano a sparire». 
Il lento ritorno alla normalità.
«Lo vivi come il momento in cui il temporale sta passando e cominci a costruirti un carattere personale intorno alla consapevolezza che il tempo che passa rende le cose migliori. Credo sia un sentimento che appartiene a molti di quelli che hanno vissuto quella tragedia. Metabolizzi che con il tempo tutto si sistema». 
Quali altri ricordi familiari ha di quel tempo, di quegli anni?
«Il passaggio dalla guerra alla pace si associa a mio padre, che era un piccolo imprenditore edile, un uomo di poche parole, molto genovese. Noi abitavamo a Pegli, ma mio padre era nato a Certosa, il 14 agosto 1892, e finita la guerra mi portava a vedere il suo quartiere. Nella mia memoria ci saremo stati mille volte, ma non so quante siano state in realtà. Il 25 aprile per me sono i racconti dei partigiani fatti da mio padre, le storie di quegli uomini che erano scesi dai monti, dalla vallata, e avevano liberato Genova, poi insignita della Medaglia d’Oro».
Che cosa accadeva durante quelle passeggiate?
«Camminavamo nella lunga strada centrale di Certosa e le vie che si aprivano erano quasi tutte intitolate a partigiani. I loro nomi sono stati l’accompagnamento, la colonna visiva e sonora di quei momenti. Mio padre aveva una dozzina di operai e c’era qualcuno che era stato partigiano. Nell’immaginario di me bambino erano tutti belli, forti e giovani, questi sono i sentimenti che mi si mescolano dentro». 
Oggi festeggiamo 75 anni dalla Liberazione. Che sentimento le suscita pensare a questo tempo trascorso?
«Il 25 aprile 1945 e il tempo che è seguito si associa all’idea di pace. In questa regione del mondo, l’Europa, in cui i popoli si sono massacrati nel corso dei secoli, viviamo in pace. Mi sembra folle che molti non lo capiscano, certo l’Unione Europea non è perfetta, si può e si deve migliorare, ma ti deve pur attraversare la mente il fatto che qui si viva in pace, e che sia meglio dell’idea di tanti Stati separati, e spero che tutto questo continui».
In questi tempi di pandemia sono state evocate immagini di guerra.
«Sinceramente io non vedo particolari similitudini fra la guerra e quello che stiamo vivendo, non sono situazioni paragonabili. Questo virus passerà, bisogna avere pazienza, si guarisce, si troverà la strada per un vaccino. Però penso che in molti, e questo non è solo un augurio, nascerà quel sentimento di cui parlavo, la consapevolezza di allontanarsi man mano da una tragedia, anche se non è una guerra. Spero che si costruisca soprattutto nei giovani. In questo percorso la scienza ci aiuterà, e lo faranno anche i buoni sentimenti, la buona volontà».
Lei vede dei segnali concreti su questo fronte?
«Non mi sforzo di volerli vedere a tutti i costi, è un fatto che si vedono affiorare, venire in superficie, quelli che potremmo definire i buoni sentimenti, la solidarietà, la compassione, anche il cambiamento nel linguaggio. Abbiamo messo in soffitta, spero non solo temporaneamente, il rancore e l’odio. La scienza è tornata ad avere un valore, è aumentata la fiducia nella scienza, quando fino a poco tempo fa si mettevano in discussione i vaccini. Vengono applauditi i medici e gli operatori sanitari. Sono tutti aspetti indubbiamente positivi. Ma c’è anche un altro lascito, diciamo così».
Quale, architetto?
«Che quanto è accaduto ci induca a riflettere sull’arroganza umana, sul nostro mondo di eccessi, che indubbiamente ha avuto un ruolo nella pandemia. Sapevamo già della fragilità della Terra, ma avevamo sottovalutato la nostra fragilità, quella biologica degli esseri umani abitanti della Terra. È inevitabile che questa nuova consapevolezza porterà anche alla misura delle cose. In questo senso, noi genovesi la parsimonia l’abbiamo nel Dna, l’abitudine a una certa sobrietà: sarà necessario sostituire la misura all’eccesso. Allontanandoci da questa tragedia umana cambieremo abitudini».
Lei come sta vivendo questo periodo di confinamento?
«Come tutti gli uffici, anche il nostro è chiuso, ma ovviamente continuo a lavorare, anche perché alcuni cantieri si sono fermati, ma altri, strategici, sono rimasti aperti. A Genova la costruzione del ponte continua ad andare avanti, così come il tribunale di Toronto, in Canada. In Cina ha riaperto un grande cantiere con varie funzioni. Ci sono progetti che proseguono, come quello di tre ospedali in Grecia, mentre sono quasi terminati i lavori per l’ospedale pediatrico di Emergency in Uganda. Dalle mie finestre, vedo una piazza con dei tigli storici. Erano spogli un mese e mezzo fa, ora sono verdissimi. La vita vegetale è in qualche modo consolante, è il simbolo che la terra guarirà. Anche se, devo confessarlo, mi manca il mare».
Che cosa vede ancora dalle sue finestre?
«Il Beaubourg è poco distante, ma purtroppo è vuoto. Biblioteche, scuole, musei, sale per concerto, è tutto vuoto. Io credo nella città, nei luoghi costruiti perché la gente si incontri, in cui si celebra il rito dello stare assieme, attività che oggi è drammaticamente vietata. Così il pensiero corre e aumenta il desiderio di arrivare presto al momento in cui staremo di nuovo insieme. In questo periodo di confinamento può essere anche utile allontanarsi in qualche modo da un soggetto, prendere un certo distacco per riflettere, ma nel fare architettura le idee prima di diventare idee non sono niente, sono battiti d’ala. La creatività è un’attività condivisa, nasce dal ping pong con gli altri, dal guardarsi in faccia, dallo stare vicini».