il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2020
Missione Molinari a Rep: svolta a destra e forbice pesante
“È ora che l’Italia abbia un giornale occidentale e liberale”, disse John Elkann, il nipote dell’avvocato Agnelli, appena diventato padrone di Gedi, l’ex Gruppo Espresso, l’ex bastione rosso, di un certo modo di pensarsi sinistra. L’ora l’ha stabilita Elkann, e fa venire in mente l’Ora di tutti di Maria Corti con l’assedio dei turchi a Otranto. Sprezzante del passato e incurante dei simbolismi, John ha rovesciato la stessa storia di Repubblica: Maurizio Molinari direttore al posto di Carlo Verdelli, per la prima volta in quasi mezzo secolo, pone il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari a destra, più neocon americani, più Israele di Benjamin Netanyahu, fobie russe, cinesi, iraniane, oltre ogni misura. Più geopolitica strategica che politica introspettiva.
Questa era La Stampa di Molinari, 137.000 copie in edicola all’esordio nel febbraio 2016, 88.000 il mese scorso. Questa è la svolta identitaria che patirà Repubblica. Elkann è un industriale di una ricca famiglia italiana con affari ormai radicati altrove, soprattutto negli Usa. Studi all’Università ebraica di Gerusalemme, ingresso nel giornalismo con la Voce Repubblicana di Stefano Folli, ascesa al Tempo di Roma, corrispondente da New York per la Stampa, Molinari garantisce a Elkann una rigida collocazione atlantica e un debole sentimento europeista, utile negli ambienti diplomatici, nei salotti avversi all’odierna Repubblica, chissà in edicola, e un secondo aspetto di non minore importanza: l’integrazione. Vocabolo che la categoria di giornalisti ha cominciato a conoscere nel suo significato più profondo e più sincero: riduzione di pagine e risorse, pensionamenti anticipati, contratti di solidarietà, incentivi all’esodo. Molinari ha gestito la fatale integrazione tra il giornale torinese e la miriade di quotidiani locali ricevuti in dote dai De Benedetti: un pezzo di cronaca, generato da uno stipendio, finisce su più quotidiani, dunque prodotti pagati più volte.
John ha apprezzato, lo reputa un modello, tant’è che Molinari ha ricevuto una doppia investitura: direttore di Repubblica e direttore editoriale di Gedi. Il mandato per Repubblica prevede almeno 150 uscite in organico e un ampio sfoltimento delle redazioni regionali. Con 100 milioni di euro, come notato, non a torto, il costo del cartellino di Cristiano Ronaldo per la Juventus del cugino Andrea Agnelli, quattro mesi fa Elkann ha congedato da Gedi i fratelli De Benedetti. Adesso ha attuato il piano che fonde il mondo Stampa con Repubblica (e i rispettivi settimanali) e ne azzera le complessità culturali, un piano elaborato già cinque anni fa con l’amministratore delegato Maurizio Scanavino, suo compagno al Politecnico, sin dal giorno in cui fu accolto in Gedi dall’Ingegnere De Benedetti con una quota di minoranza intestata a Exor, la cassaforte di casa Agnelli, e non più in capo alla Fiat (o Fca) per volere di Sergio Marchionne. Torino e Roma, in epoca di distanziamento sociale, sono sovrapposte. I movimenti ordinati da Elkann sono interni: Massimo Giannini interrompe la collaborazione con Repubblica e la guida di Radio Capital e va a La Stampa. Giannini è stato a lungo uno dei vice di Ezio Mauro, è tornato in largo Fochetti dopo l’esperienza televisiva in Rai3 interrotta per i dissidi con l’allora premier Renzi che, in piena campagna per il referendum, desiderava un’informazione docile. Mattia Feltri, figlio di Vittorio, un pezzo di carriera al Foglio, trasloca di qualche piano nella sede di Roma, uffici de La Stampa, e prende il testimone da Lucia Annunziata all’Huffpost. Annunziata si è dimessa qualche mese fa intravedendo i nuvoloni della tempesta e con cattivo gusto neanche è stata citata nel comunicato aziendale. Gedi ha ricavato due righe due per ringraziare Verdelli, giudicato neppure in un semestre e licenziato da mane a sera mentre vive con la scorta per le ripetute minacce di morte.
Tuttavia la società ormai di Elkann (e di Scanavino) ha rassicurato i lettori: Feltri proseguirà la sua rubrica sulla Stampa. Repubblica ha cambiato due direttori in quarant’anni, un ventennio ciascuno per Scalfari e Mauro. Dopo Calabresi e Verdelli, Molinari è il terzo in quattro anni. Come se la Juve nominasse un allenatore a stagione. È successo nei periodi più bui. Più che altro, il giornalismo italiano è al buio, affascinato con immane ritardo dal digitale – emblematico il direttore in “comproprietà” per l’Huffpost – e rassegnato alla chiusura delle edicole e al tracollo delle copie. Con lucido cinismo, Elkann è convinto che qualcosa caverà da Gedi – che detiene il 25 per cento del mercato editoriale – se governa con i numeri, spietati, e non con le abitudini. E così ha rinunciato subito alle buone maniere.