Corriere della Sera, 24 aprile 2020
Intervista a Paola Severino
A quante donne l’Italia potrebbe chiedere una mano e non lo fa? Che dispersione di energie provoca il soffitto di cristallo che limita le donne nella loro ascesa?
«Pensi alla dottoressa Annalisa Malara, che il Corriere ha intervistato proprio ieri. Ha cercato e trovato il virus nel “paziente 1” di Codogno quando regole e prassi non lo prevedevano. Ha vinto la sua battaglia. Ha mostrato intuizione e tenacia, due grandi virtù che le donne possono portare alla comunità, perché sono loro proprie. Però non chiede niente, non ha il “complesso dell’eroe”, così tipicamente maschile. Con nobiltà e generosità vuole solo tornare al suo lavoro, come prima. Ecco il punto: le donne separano merito e potere; gli uomini misurano il merito col potere».
Paola Severino è una donna che è arrivata ai vertici nella sua professione di avvocato, nella sua vicenda pubblica (prima ministra della Giustizia) e nell’accademia (è stata una delle pochissime donne-rettore d’Italia). Sa quanto è dura.
«Insieme con me c’erano altre dieci borsiste nella cattedra di diritto penale. Una sola è diventata ordinario. Più che una selezione, una decimazione. E le assicuro che più d’una se lo sarebbe ampiamente meritato».
E perché è così difficile emergere, farsi apprezzare, per una donna?
«Il cammino della parità in Italia procede per gradini. Ogni tanto accelera, poi si ferma. Nel ’46 le donne hanno conquistato il diritto di votare e di essere elette. Nel Comitato dei 75 che redasse la Costituzione ce n’erano 5. Poche in assoluto, ma tante per l’epoca. Però si dice ancora e solo “padri costituenti”. In magistratura le donne sono state ammesse solo nel 1963, a causa di una legge risalente al ’19, grazie all’azione di una donna, Rosa Oliva, che voleva fare il prefetto e ottenne un pronuncia della Corte Costituzionale. Oggi quella Corte, finalmente, è presieduta da una donna. Il 53% dei magistrati sono donne, ma non ce ne sono ai vertici degli uffici giudiziari (e se è per questo neanche ai vertici dell’avvocatura). Eppure in magistratura si entra per merito, con uno dei concorsi più duri e selettivi. Com’è possibile che sono abbastanza brave da entrare ma non da far carriera?
Lei sta dicendo che al merito non corrisponde il potere?
«Dico che il merito per le donne non ha come riconoscimento naturale e obbligato il potere. È un po’ anche nostra responsabilità. Troppo spesso ci accontentiamo di essere brave. Gli uomini invece si accontentano solo col potere, e si nominano l’un l’altro. Abbiamo pudore nel parlare di potere, nell’accettarlo come misuratore abituale di qualità e competenza. Senta come suona “uomo di potere”. Suona bene, sembra una cosa moralmente accettabile. Senta invece come suona male “donna di potere”. Quindi il nostro primo problema è di creare più occasioni per il riconoscimento del merito femminile e ridurre così il gap tra merito e potere. Credo anche che le donne che ce l’hanno fatta a sfondare il soffitto di cristallo dovrebbero aiutare le altre donne ad avere occasioni per mostrarlo».
Lei pensa che le leggi, le discriminazioni positive, le quote, possano aiutare?
«Se guardo alla legge del 2011, passata alla storia con il nome di Golfo-Mosca, che imponeva seppur per un tempo limitato certe percentuali di donne nei consigli di amministrazione delle aziende, mi trovo davanti a un caso tipico in cui la norma anticipa e promuove una realtà sociale che stenta ad affermarsi. La realtà si è adeguata. Ma ogni volta che, per la mia esperienza universitaria, un uomo mi chiede qualche nome di donne capaci, e io ne indico una, sento sempre la frase: ah, è vero, non ci avevo pensato. Perché non ci pensano? È questo il problema».
Per il comitato tecnico-scientifico che si occupa del coronavirus di certo non ci hanno pensato.
«Per niente. Infatti non ce n’è neanche una. I primari sono tutti uomini? I dirigenti dei ministeri sono tutti uomini? E che attrito fa questo con l’immagine delle tantissime operatrici sanitarie che il coronavirus lo combattono nelle corsie e nei laboratori, dottoresse, ricercatrici e infermiere?».
È una strada ancora lunga?
«Lo è perché comincia in famiglia. Penso al modo di dire: “Dietro un grande uomo c’è sempre una donna intelligente”. Perché non si dice “accanto” invece che “dietro”? E, in secondo luogo, quando cominceremo a dire che dietro una donna di successo c’è sempre un uomo intelligente? Perché anche questo conta, eccome. Conta la capacità degli uomini di essere uno stimolo e non un ostacolo alla crescita delle donne. La disponibilità ad accompagnare la loro strada e la fatica che comporta, a compensare il tempo che sottrae. Quanti ce ne sono, di uomini così?».