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 2020  aprile 23 Giovedì calendario

Pamuk racconta la peste come Manzoni

«Il difficile è stato trovare le fonti. Qualcuno che avesse scritto un diario: “Accidenti, ho la peste, morirò fra due giorni, dovrei tenere un diario”. Macché, non lo ha fatto nessuno». Sorride, nella sua Istanbul, Orhan Pamuk mentre racconta l’ambiente del nuovo libro che ha finito di scrivere e che sarà presto pubblicato. Un’isola del Mediterraneo fra Creta, Cipro e Rodi. L’Impero ottomano all’inizio del Novecento. E la peste, la terza nella Storia, che arriva dalla Cina e dall’India. Un soggetto che richiama terribilmente quanto il mondo sta vivendo oggi nel 2020. Solo che il Nobel per la Letteratura, da visionario, questo tema lo ha pensato molto tempo fa. Trent’anni almeno. Ci lavora da quattro. Gli fanno fede, in proposito, conferenze sull’argomento fatte in America o in Asia già nel 2018.
«Il fatto è che sono un autore lento. Se qualcuno mi chiedesse se scrivo romanzi per andare a catturare le ultime notizie, risponderei: no, signore, sono uno scrittore paziente, non potrei farlo. Ovviamente, come tutti i narratori realisti, sono attento ai problemi contingenti. Però poi i problemi passano, e devi fare il conto con quelli che restano perenni: la modernità, il confronto fra classi sociali, l’islam politico, le identità nazionali, la peste. E, naturalmente, i sentimenti: l’amore, la gelosia. Questo a me interessa».
Veba Geceleri, “Le notti della peste”, uscirà per ora in Turchia pubblicato dalla casa editrice Yapi Kredi (in Italia uscirà da Einaudi come gli altri libri). Gli eventi si svolgono nel 1901 nell’isola immaginaria di Minger, nel Mar Egeo, sotto il regno del Sultano Abdul Hamid. «La terza grande peste – spiega Pamuk – partì dalla Cina, dall’India. L’Europa la temeva dicendo: ecco, sta arrivando. Ma in Cina morirono milioni di persone, mentre nel Vecchio continente le vittime furono poche. La pandemia fu fermata. L’Impero ottomano si trovava esattamente in mezzo. Come non avrei potuto affrontare un argomento del genere? Era proprio il mio soggetto».
Molti i protagonisti: il medico di quarantena più famoso dell’Impero ottomano, il governatore Sami Pasha, una donna sultana. «Il primo capitolo si intitola “Il governo nega la peste”, cioè non la prende seriamente. Anche nei Paesi cristiani ci furono rivolte per il colera. E imposizioni del tipo: “Non uscite di casa. Chiudete il negozio!”. La quarantena non piace a nessuno. Perciò la gente si ribella. È la storia di tutte le malattie infettive della Storia. Sono temi che ricorrono, vicende che accadono in ogni tempo. E io amo questi argomenti, che tornano ciclicamente».
Nel lavorare al romanzo Pamuk ha preso come riferimento diversi autori che hanno scritto sulla peste. Ne cita tre: «Negli ultimi anni ho letto tanti saggi sulla peste, e molti di loro ammonivano che il morbo sarebbe presto tornato in qualche forma. In questi 30 anni, quando dicevo che volevo scrivere un libro su questo tema, la risposta era sempre: “Ah, lo ha fatto Albert Camus”. E il suo romanzo mi ha influenzato, perché popolare, una metafora splendida che mi ha insegnato come la peste possa essere il centro di un romanzo. Poi c’è Daniel Defoe, che dopo il Robinson Crusoe ci dà un ritratto perfetto dell’epoca in cui il morbo colpì Londra. Il suo Diario dell’anno della peste non è esattamente un romanzo: è basato su un taccuino ritrovato. Ma il modello al quale mi sono sentito vicino è stato Alessandro Manzoni. La sua, come sappiamo, non è una storia basata sulla peste. Però due capitoli de I promessi sposi sono dedicati all’epidemia del 1630 a Milano. Qui vediamo la peste come un evento reale: che cosa faceva il governo, come avveniva la quarantena, cosa pensavano gli uomini».
Dentro “Le notti della peste” ci sono poi anche molti bambini. «I bambini non credono al mondo dei valori che noi rispettiamo, ma lo mettono in discussione. In questo libro ci sono bande di bambini morti durante la peste, e bambini fuggiti dalle loro case. Lo Stato è crollato ed è incapace di prendersene cura. La presenza di un bambino in una storia mi dà un senso di realtà, di profondità, di verità. Mi piace vedere le cose attraverso gli occhi dei bambini».
A fine febbraio, Pamuk è tornato dal Pakistan dove ha accennato al suo nuovo soggetto al festival di Lahore. Dopo la metà di maggio era in programma una sua tappa in Italia: ora tutto dipenderà dai nuovi eventi: «Noi scrittori facciamo i libri, ma la ragione per cui affrontiamo un tema la comprendiamo solo alla fine. Io ho avuto questa intuizione. Però l’ho capita fino in fondo mentre era in atto il procedimento della scrittura». L’attualità lo seduce, ma fino a un certo punto. «Ho amici scrittori attratti dalle notizie, mi chiamano e mi dicono: Orhan, ho questa storia, voglio fare questa storia. E confesso di essere geloso di loro. Ma il mio animo va più alla ricerca di situazioni, di questioni filosofiche, sviluppo questo tipo di soggetti. In fondo la bellezza e la magia della letteratura stanno nel fatto che qualcuno immagina una storia, e poi la scrive. È un po’ quello che mi è accaduto adesso con quest’isola immaginaria, messa in quarantena per la peste, e completamente scollegata dal mondo. Nel mio romanzo Neve, anche la lontana città turca di Kars non aveva legami con il mondo circostante per il ghiaccio che la sommerge per mesi. Con la mia isola non è stato tanto diverso: per me questo è molto coinvolgente».