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 2020  aprile 23 Giovedì calendario

La Peste di Camus e il coronavirus

Nella città algerina di Orano, la mattina del 16 Aprile di un anno imprecisato, il dottor Bernard Rieux esce dal suo studio e inciampa in un sorcio morto sul pianerottolo. È solo l’inizio, il primo segnale dell’insorgere dell’epidemia di peste narrata da Albert Camus nel suo celebre romanzo del 1947, che è ora un prezioso soggetto letterario per decifrare il momento drammatico che stiamo vivendo.
Nelle pagine iniziali de La peste i topi morti si moltiplicano in pochi giorni in modo enigmatico e vertiginoso e poco tempo dopo tocca anche all’uomo: febbre, vomito, bubboni e morte. L’evidenza non tarda a venire: «I topi sono morti di peste o di qualcosa che le somiglia molto. Hanno messo in circolazione decine di migliaia di pulci che trasmettono il contagio secondo una proporzione geometrica, se non lo si ferma in tempo».
Quando si comincia a parlare dell’epidemia e delle misure adeguate da prendere, durante una riunione di emergenza nella prefettura di Orano, i medici sono già in grado di riferire i risultati delle analisi: in seguito all’incisione dei bubboni il laboratorio crede di riconoscere il tozzo microbo della peste. 
Ma, secondo un copione che ci è ora tragicamente familiare, la prima reazione di qualcuno dei presenti non è di dare l’allarme, ma di riflettere, di indugiare, in breve di indietreggiare di fronte all’evidenza. Il vecchio dottor Castel dichiara di sapere benissimo che si tratta di peste, ma di voler pure credere, per tranquillizzare i presenti, che non si tratti di peste, perché un riconoscimento ufficiale costringerebbe a prendere misure spietate. In fondo si davano solo singoli casi di febbre con complicazioni inguinali. Solo in seguito, con l’evidenza che la malattia è in rapida espansione e rischia di uccidere mezza città in poco tempo, scattano i provvedimenti più radicali e la peste diventa un male comune, sociale, di tutti.
Comincia allora a configurarsi come un doppio metro di valutazione, quasi un doppio destino: da una parte, teorizzata nella prima vibrante omelia di Padre Paneloux, la giustificazione della peste come un meritato castigo collettivo. Dall’altra l’eroico disinteresse del dottor Rieux che sa di doversi prodigare in ogni modo, con la stessa logica obiettiva e stringente che stabilisce se due più due è uguale a quattro, per contrastare la malattia e per salvare vite umane. «Ho troppo vissuto negli ospedali per amare l’idea di un castigo collettivo», confessa Rieux, «Paneloux è un uomo di studio, non ha veduto morire abbastanza: per questo parla in nome d’una verità». Jean Tarrou, amico fraterno di Rieux, si prodigherà anch’egli nell’organizzare squadre sanitarie e misure di profilassi, ma solleverà pure la questione ultima dell’esistenza di Dio e della sua apparente estraneità rispetto al mondo sofferente. 
Per Rieux le formazioni sanitarie devono essere organizzate ragionevolmente e con una «soddisfazione oggettiva» e l’unica verità, più logica che ammirevole, è che si deve semplicemente combattere la peste. Il narratore, che si svela alla fine per lo stesso dottor Rieux, è tentato di credere che, dando troppa importanza alle azioni eroiche, si finirebbe pure, paradossalmente, col rendere un omaggio indiretto e potente al male. Un’eccessiva retorica della buona volontà e dell’eroismo che ci difendono dalla morte lascerebbe credere, tacitamente, che le buone azioni hanno pregio perché sono rare, mentre le azioni degli uomini sono di solito regolate da malvagità e indifferenza. Ma forse le cose stanno diversamente: gli uomini sono buoni piuttosto che malvagi, solo che essi sono per lo più ignoranti, e dall’ignoranza dipendono di solito vizi e virtù.
Senza tutta la chiaroveggenza possibile rimane sempre l’ignoranza, l’incapacità di concepire una sapienza nascosta (1 Corinzi, 2) e un destino sovrapersonale al di là dei singoli eventi di cui è fatto un destino cieco e articolato in un cumulo di azioni logiche e ripetitive. Ma qualche volta è lo stesso percorso di un destino cieco e inconsapevole a favorire una visione sapienziale che troveremmo, oltre che nella mistica cristiana, nei più fondamentali testi taoisti. È il Chuang-Tzu a proporre di contemplare diecimila anni al di là del giorno e della notte, perché «questi formano un tutto unico, le diecimila creature tutte gli danno assenso e così si raccolgono insieme». Non deve allora stupire che negli stessi soggetti umani che lottano contro la peste emerga infine una divina lungimiranza che si spinge oltre la mera amministrazione di routine del soccorso umanitario.
Non solo: grazie alla peste, anche gli uomini più sofferenti e solitari trovano il modo di farsi complici di una comunità. E un complice, nota Camus, arriva perfino a divertirsi. «La sola maniera di mettere insieme le persone è di mandar loro la peste», nota il signor Cottard, che in un attimo di pazzia aveva già una volta tentato di impiccarsi.
La letteratura ci ha dato molte rappresentazioni di una duplicità del destino, con intuizioni penetranti che si possono collegare simbolicamente alle esperienze più lontane, ivi compresa la conoscenza matematica. Pensiamo ad esempio ai racconti di Schnitzler, come La signorina Else o Fuga nelle tenebre, in cui il destino di morte del protagonista, inconoscibile e inimmaginabile, è presagito fin da principio da una sorta di sapienza inconscia, ma si compie solo gradualmente per singole azioni inconsapevoli della finalità a cui sono dirette.
I romanzi di Hermann Broch ci insegnano che ogni volontà etica ha un carattere illimitato, un «oscuro sentimento del vero», che può consistere in una sorta di precognizione dell’infinito, di una totalità misurabile di cui la matematica riesce a darci preziose rappresentazioni simboliche. Ma c’è sempre una sproporzione tra quella precognizione e il sonnambulismo perenne a cui siamo costretti, in una ignoranza irrimediabile del vero destino.
Ne L’uomo senza qualità Robert Musil scrisse, con impliciti riferimenti alla scienza statistica, che «è come se in noi vi fossero due strati di vita relativamente indipendenti, che di solito si mantengono in equilibrio (…). Si potrebbe anche dire che abbiamo due destini: uno mobile e senza importanza, che si compie, e un altro immobile e importante, che non si conosce mai». Tra il destino sovrapersonale e il pulviscolo molecolare in cui si frantuma l’Io, e a cui sembra dover sempre ridursi il destino, si apre lo stesso divario che c’è tra la descrizione di un gas in termini di movimenti molecolari e quella che ricorre ai concetti di densità, pressione e volume.
Insomma, sia per Musil sia per Broch esistono eventi troppo vicini come pure eventi troppo lontani. E così accade pure nel romanzo di Camus: all’inizio dell’autunno Paneloux prova a dire a Rieux che entrambi stavano lavorando per la salvezza dell’uomo, ma Rieux risponde che parlare di salvezza era eccessivo: «io non vado così lontano, solo la sua salute mi interessa». 
Nel mese di agosto, dopo quattro mesi dal primo allarme, ad Orano «la peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti». Ma ora la prima omelia di Padre Paneloux non poteva più bastare per cogliere il senso profondo della sciagura, il possibile complesso significato di quella storia collettiva. Questo si poteva incarnare, piuttosto, nel lavoro condiviso di medici, infermieri e volontari, come Rieux o il giovane Tarrou. Dunque la peste rendeva ancora più palese la provvidenziale convivenza dei due destini, entrambi ciechi, di cui uno mobile e limitato che ci immaginiamo di conoscere e l’altro immobile e imperscrutabile che non conosciamo mai. 
La peste, come pure la ragione che la combatte colpo su colpo, sono astrazioni perfino monotone, insiste Camus, perché «le grandi sciagure, per la loro stessa durata, sono monotone», riducendosi alla fine a «una teoria di scene tutte uguali, ricominciate all’infinito». L’amministrazione prudente e impeccabile dei soccorsi e dello smistamento dei cadaveri diventa un lavoro di Sisifo, condannato a far rotolare senza posa un macigno sino in cima a una montagna. 
Eppure l’infinito falso e monotono di Sisifo, la ripetizione indefinita e coatta di un gesto miope e limitato, la lotta eroica di medici e volontari contro la disposizione invincibile della morte, riescono alla fine a far scrivere, paradossalmente, un manuale di divina felicità.