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 2020  aprile 23 Giovedì calendario

Tutti gli errori sulle Rsa

Venti giorni di visite dei parenti mentre l’epidemia dilaga. Incontri senza mascherine: moltiplicatori del contagio. E poi, ambulatori aperti, sempre senza protezioni. Infine, i tamponi sospesi dal 10 marzo, quando febbri e polmoniti ormai devastano gli anziani. Il Covid-19 dilaga nelle case di riposo mentre le autorità ragionano sul rafforzamento delle terapie intensive degli ospedali e sulle chiusure di scuole, bar, negozi: senza occuparsi di blindare i luoghi più a rischio. L’obiettivo torna sulle Rsa solo quando diventano dei cimiteri.
A due mesi dalla scoperta del primo caso di coronavirus in Italia, incrociando decine di documenti pubblici e riservati, e centinaia di testimonianze, il Corriere può dare chiara evidenza del fatto che per proteggere gli anziani andava alzato un muro di protezione intorno alle case di riposo. Andava fatto subito. Perché (quasi) tutto è accaduto nelle prime due settimane: dopo, c’è stato solo da contare le salme. «Nei giorni più neri, è passata l’idea che gli anziani fossero la parte della popolazione da sacrificare. C’è stata una passiva accettazione che dovesse andare così. È stato un disastro umano e sociale di proporzioni abnormi, che ci segnerà per sempre», riflette un primario. Abnormi sono i numeri, quasi 7 mila anziani deceduti nelle case di riposo in Italia dall’inizio dell’epidemia. Il 40% contagiati dal Covid (il 53 in Lombardia). Questa è la cronaca del disastro e delle decisioni che lo hanno determinato.

Il «blocco» delle visite
Gli anziani ricoverati nelle Rsa possono ricevere il contagio solo dall’esterno. Dunque, o i parenti non entrano, o entrano con le protezioni. Non accadrà nessuna delle due cose. La Regione Lombardia reagisce subito. In una mail del 23 febbraio (tre giorni dopo Codogno) alle Rsa viene spiegato: può entrare un solo parente per ogni anziano. Ma è una limitazione efficace? Per mega strutture milanesi come «Trivulzio» e «Don Gnocchi», con quasi mille anziani ricoverati, significa che ogni giorno almeno mille parenti entrano nella struttura. Aiutano gli anziani a mangiare, cambiarsi, muoversi. Contatti ultra ravvicinati. Se un parente è positivo, l’infezione è quasi certa.
Il 27 febbraio, altra direttiva: «Prima dell’accesso del visitatore, gli operatori dovranno chiedere conferma dell’assenza di febbre e/o sintomi respiratori». Nella maggior parte delle strutture, secondo decine di testimonianze, il filtro non avviene. Dal 2 marzo i parenti che entrano devono compilare un modulo in cui autocertificano l’assenza di sintomi. Si dice anche che i responsabili potranno applicare misure più restrittive. Dunque, responsabilità girata ai gestori, che però, in quel momento, come spiegano in un duro documento, si ritrovano con una capacità di reazione all’epidemia molto empirica.
Le limitazioni vengono estese a tutta Italia con il blocco delle visite stabilito dal Dpcm dell’8 marzo: ma con deroga per i «casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura». Molte Rsa hanno bisogno dei familiari per imboccare gli anziani. Disposizioni del Pio Albergo Trivulzio: «Possono riprendere le celebrazioni religiose presso la chiesa interna» (con la distanza di un metro). Nella Rsa del Comune di Milano «Virgilio Ferrari» non vengono chiusi mensa, bar e sale comuni: fatto che avviene quasi ovunque. Dall’alto non arrivano indicazioni contrarie. Risultato: migliaia di parenti che entrano ed escono ogni giorno. Basta un contagiato, e parte l’epidemia. Testimonianza della figlia del signor Anacleto Baglio, 87 anni, poi deceduto nella Rsa dell’Istituto Auxologico di Milano: «Sono entrata fino al 16 marzo. Quasi nessuno aveva le mascherine».

«No alle protezioni»
Il decreto legislativo 81 del 2008 assegna ai gestori delle Rsa l’approvvigionamento dei dispositivi di sicurezza. Ma nessuno li allerta sulla necessità di fare scorte per il rischio Covid-19. Quando le mascherine iniziano a mancare negli ospedali, le case di riposo non sono una priorità nei rifornimenti. L’Unità di crisi di Regione Lombardia dà un’indicazione di sorveglianza sanitaria già dal 23 febbraio. La Protezione civile il 29 stabilisce la prioritaria destinazione degli acquisti al personale sanitario. Non arriva niente, e le Rsa non riescono ad acquistare nulla. Il 9 marzo, in una mail alla Regione Lombardia, implorano «un’azione di acquisto centralizzato». Il 16 insistono: «Persiste una assoluta carenza», che pone le strutture «in una situazione di indifferibile necessità».
Le mascherine mancano. Ma le direzioni scoraggiano di usare quelle che ci sono «per non allarmare e spaventare i pazienti». Al Trivulzio il geriatra dell’Università Statale Luigi Bergamaschini viene cacciato (poi reintegrato) perché chiede l’uso delle protezioni. Al Don Gnocchi si tiene una maxi riunione a inizio marzo (sempre smentita dalla Fondazione) in cui viene di fatto «vietato» l’uso a medici e infermieri. Dai documenti interni dell’Ats (ex Asl) di Milano, emerge che le prime 10 mila mascherine destinate alle Rsa arrivano il 19 marzo; la prima fornitura decente (122 mila) è del primo aprile.
Tra 20 febbraio e 10 marzo, nella più completa sottovalutazione dei rischi, tra parenti che entrano, carenza e «divieti» di usare le protezioni, medici, infermieri e pazienti che circolano tra reparti e spazi comuni, le case di riposo sono un silenzioso frullatore di virus in espansione. Il danno avviene tutto in quei venti giorni. E subito dopo inizia a manifestarsi: al «Girola», casa di riposo del Don Gnocchi dove muoiono oltre 40 anziani su 103, le prime febbri si scoprono il 10 marzo, mentre nella sede centrale del «Palazzolo» il primo positivo viene certificato l’11 marzo; alla «Virgilio Ferrari» (un decesso ogni quattro ospiti), a metà marzo l’intero sesto piano è in quarantena e quattro anziani sono già morti di Covid. A Mediglia si contano già oltre 40 decessi.

Ambulatori aperti
L’altra autostrada di ingresso del virus nelle Rsa sono gli ambulatori e i centri diurni. I pazienti arrivano ogni giorno dall’esterno accompagnati dai parenti, fanno riabilitazione motorie e logopedia, tutto senza o con minime protezioni. Nessuno controlla se siano positivi o no. I terapisti sono quasi sempre gli stessi che poi assistono gli anziani «residenti». Le attività di ambulatorio vengono sospese tra l’8 e il 15 marzo, ma all’Auxologico di Milano, ad esempio, gli ambulatori rimangono aperti fino al 26, quando un intero piano della Rsa (dove moriranno 50 anziani su 150) è già praticamente tutto Covid. I terapisti sono quasi tutti infettati.
A Bergamo (dove nelle case di riposo è morto quasi un anziano su cinque), i direttori sanitari delle Rsa si scontrano col «dettato normativo degli organismi superiori»: fin da subito, oltre a fermare le visite dei parenti, sembra ragionevole chiudere i Centri diurni annessi alle Rsa, in cui gli anziani fanno attività fisiche e ricreative in giornata, per poi tornare a casa, ma la nota dell’Ats è categorica: «Riaprite o perderete l’accreditamento». A Vertova, pochi chilometri da Alzano e Nembro, la direttrice Melania Cappuccio concorda con le famiglie di far restare a casa gli utenti: una chiusura di fatto, ma il 28 febbraio arrivano gli ispettori per verificare che il Centro diurno sia aperto. «Il 29 febbraio — ricorda al Corriere di Bergamo Cesare Maffeis, medico e presidente dell’Associazione case di riposo bergamasche — abbiamo scritto all’Ats chiedendo di nuovo la chiusura. Richiesta respinta. Siamo stati tutti molto ligi, ma non so quanto intelligenti».

«Stop ai tamponi»
Nelle prime settimane, i tamponi sugli ospiti si fanno anche nelle Rsa. Sono esami necessari per identificare i positivi, tentare di isolarli e provare a contenere il contagio. Ma quando l’epidemia esplode, e la gestione dei tamponi inizia a intasarsi, nelle Rsa vengono sospesi, come scritto in un documento regionale del 10 marzo che prevede gli esami solo quando un anziano va in ospedale. Le Rsa chiedono di rifare i tamponi il 24 marzo. Il via libera arriva soltanto con la delibera regionale del 30 marzo (il Trivulzio ritira i suoi primi mille tamponi il 16 aprile).
I dati acquisiti dal Corriere rivelano però un aspetto chiave: sulle Rsa di Milano e Lodi, nel solo mese di marzo (quindi fino al 10) vengono fatti 2.490 tamponi, e 1.338 sono «positivi» (se ne «scopriranno» altri 4.276 in aprile). Il dato dimostra che il Covid nelle Rsa ha già «sfondato» in quei primi 20 giorni, quelli delle visite aperte e delle poche mascherine.

«Accogliete i Covid»
Ecco perché la tanto discussa delibera regionale dell’8 marzo, che chiede alle Rsa di ospitare pazienti dagli ospedali, tra cui anche i «positivi», non può essere identificata come ragione primaria di diffusione del virus nelle case di riposo.
La delibera è un «boccone» politico per chi attacca la giunta della Regione Lombardia, ma può aver al massimo creato qualche incentivo per un contagio già dilagato per altre vie. Anche perché in tutta la Lombardia i positivi trasferiti in Rsa sono stati solo 158, di cui appena 18 in una sola struttura di Milano. Al Trivulzio ad esempio, il 15 marzo, entrano 20 pazienti negativi dall’ospedale di Sesto San Giovanni. Alcuni di questi poi si riveleranno infetti: ma in quel momento, all’interno del Pat, ci sono già 51 pazienti in osservazione con sintomi del coronavirus.