Corriere della Sera, 22 aprile 2020
L’anestesista che ha scoperto il paziente 1
L’ha più sentito, Mattia?
«Qualche volta ho pensato di chiamarlo, ma non voglio essere invadente. Ho paura di ricordargli quei momenti. Sua moglie era in ospedale per il corso preparto, arrivò col pancione, distrutta. Mi fece una tenerezza infinita... No, non lo cerco. Se Mattia vuole, sono qui...».
Quando capì d’essere stata la prima a diagnosticare il Covid in Europa?
«Tornata a casa, dopo 36 ore in reparto. Mi feci una doccia, mi sdraiai. Non volli guardare tv, internet, nulla. Solo telefonare ai miei genitori, a Cremona».
Quant’è cambiata la sua vita, dal 20 febbraio?
«Non molto. Ma sono finita sotto i riflettori. Ricevo una decina di messaggi al giorno, gente che non conosco e mi ringrazia. Rispondo a tutti».
Non è cambiata Annalisa Malara, l’anestesista dell’ospedale di Codogno che il 20 febbraio era di turno, forzò i protocolli, eseguì il tampone su quel ricoverato, Mattia Maestri, e a 38 anni si trovò da sola a scoprire il Paziente 1 della grande pandemia. Svelando all’Italia che il coronavirus era fra noi: «Lavoro come prima, sto smontando da 14 ore filate. Ma poi riesco a dormire solo un’ora e mezza o due...».
Sta curando altri Mattia...
«Non pensavo che il virus potesse diffondersi così rapido. E non mi sono ancora abituata: l’approccio col malato Covid è diverso dagli altri. Emotivamente. Su quel letto puoi trovarci tuo cugino, tuo papà... E non hai il tempo d’avere paura per te stessa. Io ho fatto 4 giorni d’isolamento totale e il tampone. Poi sono tornata subito in reparto».
Sul suo ritratto Wikipedia, c’è scritto che la «pazzia» di rompere le regole poteva costarle la carriera...
«Ma no. Era una banale polmonite, eppure tutte le terapie risultavano inutili. Mattia stava morendo. Non mi restava che pensare l’impossibile. Informai il primario, la direzione sanitaria e dissi: ok, mi prendo la responsabilità».
In Italia basta molto meno, per passare da eroi.
«Due cose non sopporto, di quest’emergenza. Che la paragonino a una guerra. E che ci considerino eroi. Abbiamo risposto in modo egregio a una chiamata, ma ci siamo abituati. Anche quando nessuno se ne accorge: io brucio le ferie, faccio 300 ore di straordinari non pagati, per 3mila euro salto le notti e tre weekend su quattro, prendo rischi altissimi. E solo perché vorrei fare l’anestesista tutta la vita, senza pensare troppo a chi ci fa le cause milionarie e non vede quanta passione mettiamo».
Sembrava una banale polmonite, ma tutte le terapie erano inutili Mattia stava mo-rendo. Non mi restava che pensare l’impossibi-le. Informai il primario e dissi: ok, mi prendo io la respon-sabilità
Ha sempre voluto essere un medico?
«In seconda elementare mi disegnavo col camice e il fonendoscopio. Ammiravo l’intelligenza e la determinazione di Rita Levi Montalcini e fu un’emozione quando venne a parlare a Pavia, in università».
Che cosa pensò, quando il premier attaccò l’ospedale di Codogno per la gestione del Paziente 1?
«Mi stupì. Avevamo dato l’anima e ci rimasi male. Mattia era già rimasto dieci giorni a casa, infettato. E al ricovero del 18 non aveva detto nulla di quella cena con uno che era stato in Cina. Ci hanno pensato i Nas, a sequestrare le cartelle e a trovare tutto a posto».
Ma i piccoli ospedali si sono rivelati una debolezza o una forza?
«Se c’è una buona organizzazione, hanno dimostrato di poter reggere. E perfino diagnosticare per primi un virus che era in Europa da settimane, e nessuno aveva visto».
Sa che propongono di fare del 20 febbraio la Festa dei Camici bianchi?
«Ho letto. Mi fa piacere. Ma spero che la gente si ricordi di noi anche il resto dell’anno».
Sa che per il Pd è il simbolo delle donne che lavorano?
«La politica non fa per me. Però, nella gestione della sanità, qualche donna in più non guasterebbe».
Che farà, quando finirà?
«Vado a camminare in Val Veny. Con tripla protezione di guanti e mascherine».