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 2020  aprile 22 Mercoledì calendario

Il grande rebus delle mascherine

Non ce ne sono ancora abbastanza e, quando si trovano, costano ancora troppo. L’affaire delle mascherine è un’utile cartina di tornasole per capire come gli obblighi di protezione già attuali e quelli in arrivo rischino di entrare in serio conflitto con le lentezze della burocrazia italiana e con la confusione tra Stato e Regioni. 
L’uso delle mascherine, inevitabilmente, con l’allentamento del lockdown aumenterà a dismisura. In alcune regioni, come Lombardia e Campania, sono già obbligatorie per chiunque esca di casa. A livello nazionale probabilmente se ne consiglierà solo l’uso, ma si impone l’obbligo di indossarle nei posti di lavoro più a rischio, sui mezzi pubblici e in alcuni negozi o locali. Il Politecnico di Torino ha fatto una stima del fabbisogno nazionale, a partire dalle riaperture del 4 maggio, depurando il numero del probabile smart working: 953 milioni di mascherine al mese, 35 milioni al giorno. Un numero enorme che difficilmente si riuscirà a reperire. 
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, annunciando ieri che le mascherine le useremo fino a quando si troverà un vaccino o una terapia efficace, ha spiegato che al 19 aprile ne risultavano distribuite alle Regioni 117 milioni. Il commissario per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri, dimostra un ottimismo sorprendente: «Il tema delle mascherine ha lasciato il passo ma continuiamo una massiccia e vasta distribuzione. Le Regioni ne hanno un po’ di più di quelle che gli servono». Non solo: «In questa settimana, oltre alle 600 mila mascherine distribuite all’Ordine dei medici, ne abbiamo consegnate 400 mila all’ordine degli infermieri e 241 mila ai tecnici radiologi». 
Tutto risolto? Non proprio. Perché c’è chi dice l’esatto contrario. Come il segretario della Federazione dei medici di medicina generale, Silvestro Scotti, che denuncia «l’impossibilità» di reperire mascherine e altri dispositivi di protezione e annunciano il rischio di «interruzione forzosa di tutte le attività fuori dai servizi essenziali». 
I medici paventano l’aumento indiscriminato dei prezzi e la relativa speculazione. Aumento che già c’è stato visto che, secondo una ricerca di Altroconsumo, il costo di una mascherina chirurgica può raggiungere i 6 euro e quella delle FFP2 anche 15-20 euro. La maggioranza sembra intenzionata a correre ai ripari. Potrebbe essere approvato nel decreto liquidità un emendamento per imporre un prezzo massimo di vendita delle mascherine chirurgiche: si parla di una cifra intorno a 0,90 centesimi a pezzo. Iniziativa lodevole, che dovrà fare i conti con il mercato online, destinato a crescere se all’aumento di richiesta, a partire dal 4 maggio, non corrisponderà un’adeguata offerta. Mentre il sottosegretario all’Interno Achille Variati dice che dovrebbe essere lo Stato a distribuirle gratis. Proposta lodevole, ma forse non proprio dietro l’angolo. Ma quanti sono i pezzi prodotti e distribuiti ogni giorno in Italia? Nessuno ha questa cifra. Perché dopo l’affanno iniziale (erano solo un paio le aziende italiane che le producevano) è partita una corsa incontrollata. Sono 87 le aziende che hanno ottenuto incentivi per riconvertirsi. Ancora in questi giorni il commissario intercetta e sequestra mascherine da destinare agli ospedali. 
E le mascherine per i lavoratori, i commercianti e i cittadini che ne avranno bisogno o saranno obbligati a indossarle? Su quello, aziende e titolari di esercizi dovranno arrangiarsi. Al momento si calcola che lavorino un terzo delle aziende. Le mascherine chirurgiche si trovano, FFP2 e FFP3 sono quasi una rarità. Più facile reperire quelle simil chirurgiche, quelle da «Bugs Bunny» (come ha detto il governatore Vincenzo De Luca) o quelle «di carta igienica» (Attilio Fontana). Che succederà a pieno regime? Racconta la sua esperienza Davide Caparini, assessore al Bilancio della Lombardia: «Solo al personale sanitario ne servono 300 mila al giorno. Durante la prima settimana, dalla Protezione civile ce ne sono arrivate 1,8 milioni. Altre 10 milioni ce le siamo comprate noi in India Turchia e Cina. Ora le abbiamo, ma se aumenta il fabbisogno bisogna che l’Istituto superiore della sanità si dia una mossa a dare le certificazioni alle aziende che hanno chiesto di poterle produrre».