La Stampa, 22 aprile 2020
Lo spettro di Lenin nella Russia post-sovietica
Lo si vede ovunque. Con il cappotto o soltanto in giacca, con la coppola in testa o a capo scoperto, con la mano sul petto o protesa in avanti, seduto con l’aria pensierosa o mentre accenna un passo deciso verso il futuro, in bassorilievo di profilo, di bronzo, marmo, mosaico, gesso e granito. È sparito dai rubli, come chiedeva il poeta del disgelo kruscioviano Andrej Voznesenskij, e i milioni di spillette, gagliardetti e bandiere con la sua effigie ormai si trovano soltanto nei negozi di souvenir per turisti europei, ma è ancora molto presente, in migliaia di monumenti, e soprattutto in carne e ossa, nella sua mummia ancora sepolta nel mausoleo sulla piazza Rossa, che ha sulla facciata soltanto cinque lettere: Lenin.
L’esistenza postuma del padre della rivoluzione nella Russia postsovietica è il contrario di uno spettro: si vede, anzi, è onnipresente, ma è come se non ci fosse. La metropolitana di Mosca porta ancora il suo nome, come decine di città, vie e istituzioni, ma Lenin non è più un’icona, un modello, meno che mai un profeta. È quasi innominabile. Nell’incredibile mix ideologico della Russia putiniana, che riesce a venerare le glorie dell’impero degli zar accanto a quelle del comunismo, l’Unione Sovietica è il paradiso perduto, ma il suo fondatore è stato sfrattato dal pantheon dei padri della patria, al punto che il primo canale della tv ha celebrato il centenario della rivoluzione d’Ottobre con una fiction dedicata a Trockij, dipinto come il vero protagonista del 1917, in opposizione a un Lenin meschino e violento.
Il critico più feroce è un altro Vladimir che, come lui, abita al Cremlino, e quando parla del suo predecessore perde l’abituale gelida compostezza e lo chiama con disprezzo «il signor Uljanov». Nemmeno un «compagno», e Putin non risparmia critiche durissime a Lenin, colpevole di avere «messo una bomba atomica sotto lo Stato» con la decentralizzazione in autonomie nazionali, perché era «un rivoluzionario, non uno statista». Una definizione lapidaria, coniata da un uomo fiero di considerarsi conservatore, paladino di una «stabilità» che assume un valore quasi sacrale.
I due Vladimir sono agli antipodi, ma la parola «rivoluzione» in Russia ha una connotazione negativa che unisce putiniani e antiputiniani. In questa visione dello Stato come valore supremo, il rottamatore della monarchia dei Romanov – ormai presentata come un altro paradiso imperiale perduto, insieme all’Unione Sovietica - si vede addossare anche la colpa di averlo sostituito con una superpotenza durata «soltanto» 70 anni. Putin gli rimprovera anche di aver trasferito «territori da sempre russi» all’Ucraina, ma nello stesso tempo si è offeso quando Kiev ha demolito i monumenti a Lenin.
In questa confusione ideologica, sintomo della sindrome post-traumatica da perdita dell’impero, Lenin si vede soppiantato dal suo eterno alter ego, Stalin. Il grande revival del dittatore georgiano, sfrattato dal mausoleo da Krusciov ed elogiato da Putin come «manager efficiente», è un’altra vendetta postuma, dopo che per decenni Lenin era stato presentato come il «buono» del comunismo e il «ritorno alle norme leniniane» era stato il mantra dei riformatori (falliti) del socialismo sovietico.
Ma proprio in quanto conservatore avverso a ogni rottura, il presidente russo si rifiuta di dare una sepoltura alla mummia di Lenin. E forse la scelta del 22 aprile come data del referendum che Putin aveva indetto per rimanere al potere per altri dodici anni non era casuale, in un tentativo di venire associato, soprattutto dai russi meno giovani, a colui che per decenni avevano considerato l’uomo più importante della storia. Non aveva fatto però i conti con il coronavirus: oggi sia gli elettori di Putin sia i nostalgici di Lenin rimarranno a casa.