il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2020
Ho fatto la rider della spesa per 15 giorni
Otto: è il numero delle casse d’acqua da due litri a bottiglia che un cliente ha chiesto di ricevere nella sua casa in centro, quattro da un supermercato, quattro da un altro, rispettivamente alle 9 e alle 10 del mattino, insieme al resto della spesa. La applicazione, quando mi ha assegnato l’ordine, non mi ha detto che ci sarebbero state. Sono furbi, non si può sapere prima che cosa si dovrà acquistare, lo si scopre solo una volta arrivati al supermercato.
Iscriversi a una delle piattaforme per diventare una sorta di rider per le consegne della spesa online è stato molto più semplice di quanto lo sia in tempi normali: il picco di richieste di consegne a domicilio ha fatto riaprire “le assunzioni” rapidamente. Oggi, soprattutto nelle grandi città, i supermercati sono tappezzati di annunci per lavorare come shopper. Le restrizioni per il Covid-19 hanno generato una folle corsa ai supermercati, la grande distribuzione ha stretto accordi con le piattaforme (soprattutto per i punti vendita più isolati e meno raggiungibili), la crisi economica ha aumentato la disponibilità di manodopera a basso costo. A differenza dei rider, che devono solo consegnare, agli shopper tocca però anche fare gli acquisti.
Colloquio e corsi: tutto online e a distanza
In poche ore mi sono candidata sul sito della piattaforma e mi hanno ammesso al “colloquio”: tre video da dieci minuti ognuno e una decina di domande a cui rispondere: “Se il cliente vuole lo yogurt magro della marca X ma non c’è, cosa gli prendi?”, “Se la tua sostituzione non rientra nel range di prezzo indicato, cosa fai?”, “Come conservi la cernia surgelata se fa caldo?” “Ti è chiaro che sarai pagato a fine settimana?” “Se la app ti dice di pagare con la carta che ti viene fornita, tu che fai?” “E se non trovi la casa del cliente?. Dopo circa mezz’ora hanno stabilito che ero idonea. Ho inviato i miei dati e le scansioni dei documenti, compilato il profilo, mi hanno inviato un contratto in cui si sancisce che mi avvalgo della prestazione d’opera occasionale, che sono un soggetto autonomamente organizzato, che lavoro con mezzi propri e che rispetto il codice etico e che ho molte responsabilità. Ho firmato digitalmente. “Ti diremo dove ritirare il kit”. La consegna, una settimana dopo, nel parcheggio di un supermarket.
Il cliente ha ragione, anche in emergenza
Quasi tutti i clienti scelgono di essere chiamati al termine della spesa per discutere dei prodotti ordinati ma non disponibili. Caso esemplare: erano finiti farina e lievito di birra, ma anche disinfettante, Amuchina, bicarbonato, guanti. Il cliente vuole che li sostituisca con prodotti simili, quelli che gli ho proposto non gli vanno a genio, che gli dica al telefono di cosa è fornito il supermercato, che non sfori neanche di un centesimo il budget che ha previsto. La scena si ripete a ognuno degli ordini che estinguo nei 15 giorni di lavoro. Corro tra gli scaffali, leggo e raffronto marche e prezzi, inserisco i pesi precisi dei prodotti, avviso se non sono disponibili o se del salmone c’è in offerta il trancio anziché il filetto. “Ma l’immagine sul sito mostrava un filetto!” si lamenta una signora che non vuol pagare di più. A volte i punti vendita e le piattaforme non comunicano sulle forniture, il ricambio merci è troppo veloce e tutto si complica. “Siete inaffidabili!” mi urla al telefono, che intanto registra la chiamata per il controllo qualità. Nonostante abbia soddisfatto tutte le richieste dell’ordine, anche quelle di dettaglio (“L’avocado né troppo maturo, né acerbo. La mortadella sottilissima. Il prosciutto un po’ più spesso”), mi lascia un feedback negativo.
Pesi massimi, ma sempre stessa paga
Spingo in cassa due carrelli da 260 euro di spesa, imbusto tutto in 15 sacchetti con attenzione. Tre si romperanno nel trasporto. Quando sono diventata shopper, mi hanno indottrinato: ho diviso i surgelati e i freschi nelle borse termiche che ho comprato io (perché le due fornitemi erano troppo piccole rispetto alla mole di richieste), i detersivi e i prodotti non commestibili isolati, le uova in alto. Tutto in equilibrio sui 30 pacchi di pasta in offerta e 20 lattine di legumi. Poi, carrelli pieni, vado a chiedere la fattura al punto informazioni facendo attenzione a rispettare un metro di distanza e con mascherina e guanti ben posizionati. Li ho comprati io, dicono rimborseranno ma non è chiaro come. E ancora: garage, carica l’auto, cerca l’indirizzo della consegna, ignora le notifiche della piattaforma che prima ti avvisa che manca mezz’ora al termine della consegna, poi che sei in ritardo, poi ti chiede quanto ti ci vorrà ancora. Nella settimana prima di Pasqua, l’assistenza mi contatta continuamente su Whatsapp per sapere se voglio accettare ordini fuori dall’orario di disponibilità. “Ti diamo un bonus di 3 euro, lo fai?”. Rispondo di sì mentre sono ferma al semaforo. cambio il terzo paio di guanti della giornata e la seconda mascherina. Il parcheggio non c’è quasi mai, l’auto è in doppia fila a 100 metri dall’indirizzo. Scaricare richiede cinque viaggi. Il palazzo è vecchio, l’ascensore c’è ma è al termine di una rampa di 15 scalini, la piattaforma assicura al cliente la consegna al pianerottolo. Tutta l’operazione, dall’ingresso al supermercato alla selezione molecolare di frutta, verdura (un finocchio, tre lattughe, due zucchine, una melanzana, una pianta di rosmarino, 200 grammi di pomodorini, un etto di zucca, una mela, due pere, tre banane) e carne fino al ritiro dei soldi dal cliente, ha richiesto due ore e mezza, sudore, 20 chilometri in auto e mal di schiena. Per un guadagno di 10.34 euro, niente mancia.
Compensi: arrotondare al tempo del Covid-19
In tempi normali e su carta, basterebbero ad arrotondare, come raccontano in molti sui forum. Con la mole di lavoro dell’emergenza, però, i compensi rischiano di sfiorare lo sfruttamento nonostante la crescita record delle piattaforme. In media, sono previsti 6 euro di base a consegna: una parte è fissa (circa 3 – 3,5 euro), il resto intorno ai 15 centesimi per categoria di prodotto. Ci metto un po’ prima di capire che “il computo variabile” si calcola per il numero di categorie e non per i pezzi. Tradotto: se compro una cassa d’acqua o ne compro dieci, il mio guadagno corrisponderà sempre a 15 centesimi. Se poi si è particolarmente bravi e si effettuano più ordini contemporaneamente nello stesso punto vendita, anziché essere premiati si rischia di veder ridotto il compenso. Rifiutare innesca la reazione degli algoritmi tipica della gig economy: meno ordini e perdita di bonus. Non vale però in questo caso: le piattaforme hanno così bisogno di lavoratori che anche i ritardi sono tollerati, impensabile fare e consegnare spese da 200 euro in un’ora come vorrebbe la app in tempi normali. Peccato che il compenso è praticamente lo stesso. L’unico modo per guadagnare di più grazie ai bonus è dare più disponibilità o convincere altri a diventare shopper.
“Sono senza lavoro, così mi assicuro le entrate”
Durante una delle consegne, conosco Giovanni. Aspettiamo il turno al banco dei salumi (avremmo precedenza, ma le persone non mollano il loro turno facilmente). Le uova allevate a terra del suo ordine non ci sono, mi chiede se possono andar bene quelle normali. “Io non faccio questo nella vita, sono un operaio in cassa integrazione”, spiega. Racconta che non sa se vedrà uno stipendio nei prossimi mesi, ha moglie e tre figlie. “Non mi fido mica dello Stato. Nel dubbio, meglio questo”. Inserisce in media 9 ore di disponibilità al giorno e lavora anche la domenica.
“La sera sono distrutto: non ho mai visto tutta questa spesa, la gente deve essere impazzita, teme di non uscire più di casa o che finisca la roba. O magari non vuole fare la fila”. La paga? “Non posso lamentarmi perché non c’è alternativa ora”. Ride: “Almeno non c’è traffico”. In realtà sa che non è abbastanza. “Può pure andar bene con commesse normali e part time. Ma se diventa una attività a tempo pieno e muove ordini di queste dimensioni, non può bastare un bonus. Lo spendo in cerotti per la schiena”. Ad aprire la porta, nelle 30 consegne fatte in 15 giorni, la maggior parte delle volte erano universitari o famiglie con bambini. Solo in dieci hanno scelto la consegna “a porta chiusa”, sul pianerottolo. In due casi ho consegnato a persone disabili, in cinque ad anziani. “Grazie per quello che fate in questo periodo – mi ha detto un signore al quarto viaggio per consegnare i suoi sacchetti al terzo piano, senza ascensore (c’è bonus) – siete davvero preziosi in questo momento”.
È vero. E dovremmo essere pagati come tali.